Accedi

Registrati



Può sembrare un quesito da specialisti, ma in realtà così non è. Una persona che a seguito di una sindrome coronarica acuta, se non proprio di un infarto del miocardio, ha subìto un intervento di angioplastica (impianto di uno stent nell’arteria ostruita), quali rischi corre nel sottoporsi successivamente a un accertamento diagnostico invasivo o a un intervento chirurgico? Il nodo del contendere è l’utilizzo dei farmaci antiaggreganti, prescritti a tutti i pazienti sottopostisi a una simile procedura: quasi 150mila italiani ogni anno. L’interruzione della terapia, come spesso indicato nel passato, aumenta il rischio di emorragia, nel corso o al termine di un intervento chirurgico. Da qui il cambio di rotta degli esperti, ribadito nel corso dell’ultimo congresso della Società Italiana di Cardiologia Invasiva (Gise). «La sospensione della terapia antiaggregante comporta un aumento del rischio di andare incontro a un secondo infarto per questi pazienti», mette in guardia Giuseppe Musumeci, cardiologo all’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo e presidente Gise.

QUAL È IL RUOLO DELLA TERAPIA ANTIAGGREGANTE?

Ogni anno in Italia si affrontano quasi 150mila interventi di angioplastica coronarica. A questi pazienti, dopo l’intervento, viene somministrata una doppia terapia antiaggregante: all’assunzione a vita dell’aspirina, viene aggiunto un altro farmaco, fino ad almeno un anno dall’intervento. Obiettivo del trattamento è evitare l’aggregazione delle piastrine e ridurre dunque il rischio che si formino trombi in grado di ostruire la circolazione sanguigna. La doppia terapia antiaggregante, dunque, ha un obiettivo chiaro: fluidificare il sangue per evitare una nuova ostruzione arteriosa. È ciò che serve per evitare un secondo infarto del miocardio. Ma se pochi mesi dopo aver messo uno stent il paziente deve sottoporsi a un intervento chirurgico, il quesito diventa attuale: cosa fare della terapia antiaggregante? Va interrotta o meno?

TERAPIA ANTIAGGREGANTE: QUANDO SOSPENDERLA?

In caso di interruzione, a ridosso di un intervento chirurgico (ginecologico, di chirurgia generale, otorinolaringoiatrico, ortopedico) così come di una procedura diagnostica invasiva (gastroscopia, colonscopia), il rischio finora considerato era quello di esporre la persona a una più probabile emorragia durante o dopo l’intervento. Ma in realtà, oltre al sanguinamento chirurgico, lo stop alla terapia antiaggregante a ridosso di un intervento espone il paziente a un rischio più alto di trombosi e quindi di occlusione dello stent coronarico e di possibile sviluppo di un infarto miocardico pre-operatorio.

Per questo motivo «la terapia antiaggregante va temporaneamente sospesa solo in caso di interventi molto invasivi, per limitare il rischio di sanguinamento, a sfavore però di un aumento delle probabilità di formare dei trombi», prosegue Musumeci. «Oggi sappiamo che è possibile gestire la terapia antiaggregante, senza interromperla, valutando il profilo dei rischi, emorragico e ischemico, sul singolo paziente - gli fa eco Sergio Berti, direttore dell’unità operativa complessa di cardiologia diagnostica e interventistica dell’ospedale di Massa Carrara -. Sappiamo che mantenendo la terapia antiaggregante, i tassi di eventi cardiovascolari avversi e mortalità ospedaliera sono inferiori al due per cento. I rischi vanno bilanciati in base alle condizioni del singolo paziente. Se quello emorragico supera quello trombotico, a sei mesi dall’impianto dello stent riassorbibile si può sospendere il secondo antiaggregante 5-7 giorni prima dell’intervento, riprendendolo nei giorni successivi e proseguendolo fino a un anno dall’impianto dello stent».

COI NUOVI STENT SI UTILIZZANO MENO ANTIAGGREGANTI

L’argomento è piuttosto delicato, viste le potenziali conseguenze e l’alto numero di persone interessate. Si spiega così l’attenzione riposta dagli specialisti, che nel corso dell’appuntamento annuale hanno commentato i risultati tratti dal primo registro prospettico, creato nel 2011 e divenuto il punto di riferimento per la gestione di questi pazienti. I risultati, ottenuti su mille pazienti, sono incoraggianti. «Ma adesso c’è la necessità di revisionare il protocollo, sulla base delle nuove terapie antiaggreganti e della dotazione di tecnologie e strumentazioni più raffinate - chiosa Musumeci -. Tra questi ci sono i nuovi stent innovativi che richiedono il ricorso molto più limitato alla terapia antiaggregante post-chirurgica, per garantire al paziente coronaropatico una maggiore tollerabilità e una migliore sopravvivenza. Nel nostro Paese, negli ultimi trent’anni, la mortalità per cause cardiovascolari si è ridotta del 16».

Twitter @fabioditodaro

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

vai all'articolo originale >>