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Sono circa trentaduemila all’anno, pari al 6,7 per cento del totale, i neonati che in Italia vengono alla luce prima del termine della gravidanza. I dati, diffusi dalla Società Italiana di Neonatologia, identificano quei bambini che terminano il loro percorso di vita intrauterina entro la trentasettesima settimana di gestazione. Ma considerarli tutti uguali è un errore.

Come ricordato in occasione dell’ultima giornata mondiale della prematurità celebrata lo scorso 17 novembre, nascere con largo anticipo, prima della trentaduesima settimana, comporta delle cautele maggiori. «Più bassa è la loro età gestazionale, maggiore deve essere l’assistenza», dichiara Mauro Stronati, direttore della struttura di neonatologia e patologia neonatale del policlinico San Matteo di Pavia e presidente della Società Italiana di Neonatologia.

A partire dagli Anni 50 le nuove ricerche scientifiche hanno permesso di individuare terapie sempre più efficaci, per consentire una sopravvivenza sempre maggiore ai neonati prematuri e in particolare a quelli con peso alla nascita molto basso (meno di 1,5 chili) e a quelli con peso estremamente basso (inferiore a un chilo).

La percentuale di mortalità nei prematuri del primo gruppo è passata così da oltre il settanta per cento degli Anni 60 a meno del quindici per cento circa dei giorni nostri. Un calo della stessa entità ha riguardato pure il secondo campione: dal novanta a meno del trenta per cento.

Detto ciò, quando un neonato nasce prima del termine, è necessario comunque tenere sempre alta l’attenzione: visti gli aumentati rischi di sviluppare complicanze respiratorie, metaboliche, infettive e sequele neuromotorie, cognitive e sensoriali.

«Alcuni neonati pretermine necessitano di un follow-up personalizzato, ma nella maggioranza dei casi un calendario dei controlli adeguato prevede delle valutazioni a 7-10 giorni dopo la dimissione, quindi alla quarantesima settimana di età, corrispondente al momento in cui il neonato avrebbe dovuto nascere - prosegue Stronati -. I successivi controlli si effettueranno tra i 2 e 3 mesi, tra i 6 e gli 8 mesi, tra i 12 e i 14 mesi, tra i 18 e i 24 mesi. Infine ai 36 mesi di età corretta».

Per garantire la migliore assistenza possibile a questi bambini, la prima indicazione degli esperti tocca un tasto dolente: la chiusura dei punti nascita più piccoli, quelli che fanno registrare meno di cinquecento parti all’anno. Un punto su cui il dibattito dovrebbe essere chiuso ormai da sei anni: tanti ne sono passati dalla riorganizzazione della rete neonatale. Ma che invece è ancora di estrema attualità, visto che tradurre in pratica queste indicazioni è molto difficile a livello locale, dove spesso la popolazione è contraria alla chiusura di quelli che fino a questo momento sono stati i punti di riferimento delle giovani famiglie.

Fondamentale, secondo gli esperti, è anche garantire ai genitori l’ingresso nei reparti di Terapia Intensiva Neonatale per tutto il giorno. «Lasciare libere le mamme di stare a contatto col proprio bambino è importante non solo per promuovere l’allattamento al seno, ma anche per favorire lo sviluppo neurologico del neonato e consolidare il rapporto madre-figlio», prosegue Stronati.

Un esempio è dato dalla «Kangaroo care», che consiste nel mettere il piccolo, nudo, sul seno della mamma o sul petto del papà, a diretto contatto con la pelle. «Un semplice gesto che ha molti vantaggi: garantisce la regolazione della temperatura e del respiro, migliora il suo livello di ossigenazione e ha un’influenza positiva sul suo sviluppo neurologico. Inoltre, questo crea un legame intenso che ha un impatto fortissimo sul piano psicologico di madre, padre e neonato».

Twitter @fabioditodaro

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