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Un uomo nudo, dalle membra nodose, seduto su un letto. Una donna accovacciata accanto a un bambino. L’ultimo dipinto di Egon Schiele, «La famiglia» rappresenta involontariamente la più terribile pandemia della storia umana: l’influenza «spagnola» che, cento anni fa, colpì un individuo su tre in tutto il mondo uccidendo tra i 10 e – secondo alcuni – i 50 milioni di persone.

Schiele aveva appena ritratto la moglie Edith incinta di sei mesi, quando, alla fine di ottobre del 1918, la stessa, contagiata dal virus, morì senza poter dare alla luce quel bimbo bruno e riccioluto che il pittore aveva immaginato. Lo stesso artista seguì nella tomba la consorte appena tre giorni dopo.

Un libro racconterà la storia dell’epidemia

Non a caso, il dipinto è riportato sulla copertina del volume «1918: l’influenza spagnola. L’epidemia che cambiò il mondo» edito da Marsilio. Opera della giornalista scientifica Laura Spinney e in prossima uscita, il volume ricostruisce la storia della pandemia seguendone le tracce in tutto il globo, dall’India al Brasile, dalla Persia alla Spagna, dal Sudafrica all’Ucraina, inquadrandola da un punto di vista scientifico, storico, economico e culturale.

Nonostante l’entità della tragedia, che superò di gran lunga le morti dovute alla guerra (16 milioni di vittime) le conseguenze della spagnola sono rimaste a lungo in secondo piano rispetto alla memoria delle devastazioni lasciate dal conflitto.

Una catastrofe sanitaria

Nel febbraio 1918 l’Agenzia di stampa spagnola FABRA trasmetteva: «Una strana forma di malattia a carattere epidemico è comparsa a Madrid … L’epidemia è di carattere benigno non essendo risultati casi mortali». Se in Spagna si era cominciato a parlare della malattia, la stampa europea, soggetta in buona parte alla censura di guerra, poteva scrivere solo degli sviluppi della malattia nel paese iberico. Per questo la nuova malattia epidemica fu chiamata «spagnola».

Fort Riley in Texas

Tuttavia i focolai più importanti si svilupparono negli Stati Uniti, presso basi militari. Si parla di Fort Riley, nel Texas, dove vennero colpiti 1.100 soldati. Quando mancavano ancora un paio di mesi alla fine della Grande Guerra, nel settembre del 1918, la pandemia venne diffusa in Europa soprattutto dal corpo di spedizione statunitense. I soldati che si ammalavano al fronte venivano ricoverati nelle retrovie, contribuendo a espandere il morbo anche fra i civili.

Il flagello dei giovani

Di norma, i soggetti maggiormente a rischio per l’influenza sono i bambini e gli anziani. Stranamente, invece, il virus del 1918 uccise soprattutto giovani tra i 18 e i 40 anni. Questo, insieme al fatto che i focolai si svilupparono soprattutto in ambienti militari, ha dato spazio ad alcune tesi complottiste. Il virus apparso dal nulla, flagello degli uomini giovani e forti, altrettanto misteriosamente scomparso dopo la fine della guerra, ha fatto ventilare ad alcuni che potesse essere stato, in origine, qualche tipo di arma batteriologica sfuggita di mano agli americani. Più verosimilmente, da alcuni studi emerge come gli individui delle generazioni «di mezzo» non avessero avuto contatti con il passaggio di altri ceppi influenzali che le persone più anziane avevano invece già vissuto, immunizzandosi al contagio.

I sintomi del virus letale

I sintomi della spagnola erano tosse, dolori lombari, febbre; successivamente i polmoni cominciavano a riempirsi di sangue e la morte poteva arrivare in pochissimi giorni. Il responsabile era il virus RNA H1N1: le sue caratteristiche erano in grado di suscitare un’abnorme reazione del sistema immunitario che non proteggeva più l’organismo, ma addirittura partecipava al danno anatomico. La trasmissione del virus avveniva per tosse o starnuti. Uno di questi poteva immettere in aria circa 4.600 goccioline sino a 4 metri di distanza. Tali goccioline potevano rimanere sospese nell’aria per più di mezzora e ognuna poteva originare circa 19.000 nuove colonie di virus. Secondo alcuni ricercatori giapponesi, vi sarebbero stati, in particolare, tre geni che avrebbero permesso al morbo di attaccare l’apparato respiratorio provocando la polmonite.

Donne spagnole con la mascherina per proteggersi

Le cure che venivano utilizzate: purtroppo inefficaci

La medicina si dimostrava impotente: i dottori morivano contagiati e quelli che sopravvivevano vedevano i pazienti, parenti e amici, morire in massa. Le prime terapie utilizzavano il Fenazone per abbassare la temperatura, la tintura di Noce vomica per stimolare il sistema nervoso ed estratti dalla pianta Digitale per sostenere il cuore.

Molti medici erano fortemente contrari all’uso dell’aspirina, di recente invenzione che, pur abbassando la febbre, era accusata di favorire complicazioni polmonari e cardiache. Un medico di allora annotava: «Iniettarono una broda composta di sangue e muco degli influenzati, filtrata per eliminare le cellule più grandi e i detriti» ma questo non faceva che aggravare la situazione.

Poi la fantasia di medici e farmacisti si sbizzarrì: un medico francese consigliava ai malati di bere molto vino rosso sino a che il berretto appeso al pomello della porta non fosse apparso sdoppiato. Lo scrittore veneziano Tito Spagnol fu caustico circa le cure in voga: «Quattro pastiglie di chinino e un po’ di paglia per morirvi sopra».

La storia dei vaccini

Secondo la propaganda antivaccinista, la spagnola sarebbe stata causata da vaccinazioni militari di massa. A questo proposito, si segnala un convegno che avrà luogo giovedi 25 gennaio a Roma, alla presenza del ministro della Salute Beatrice Lorenzin, presso l’Accademia dell’Arte Sanitaria di Roma. Nella Sala Alessandrina dell’ospedale più antico del mondo, il complesso di S. Spirito in Sassia, i professori Adelfio Cardinale, Giovanni Rezza e Alberto Villani terranno una prolusione sul tema «Le vaccinazioni nella storia e nell’attualità».

L’Italia ammalata

Il nome di «influenza» risale proprio a due storici italiani, Domenico e Pietro Buoninsegni che nel 1580, osservando la malattia, si erano convinti che fosse dovuta all’influsso malefico delle stelle e l’avevano pertanto chiamata «Influenza» stellare.

Ospedale da campo italiano

Il nostro paese, già messo duramente alla prova dalla Grande guerra, fu ulteriormente vessato dalla spagnola in tre successive ondate e il numero di persone decedute fu secondo solo a quello della Russia, dove il clima rigidissimo aggravava la situazione per i malati.

In Italia, la pandemia contagiò circa 4 milioni e mezzo di persone, circa il 12% dell’intera popolazione che, all’epoca, contava circa 36 milioni di individui. I morti stimati furono tra i 375.000 e i 650.000 e il morbo colpì principalmente al sud, anche se la mortalità variava sensibilmente da città a città, apparentemente senza una regola. Al fronte, a metà ottobre, si arrivò a punte di 3000 nuovi casi giornalieri. Nella 1ª armata, nell’ultimo quadrimestre del 1918, si ebbero 32.482 casi di contagio con 2703 morti.

I funerali di una vittima della Spagnola in Basilicata

Moltissimi furono i morti nel personale sanitario, ma anche in quello addetto ai trasporti (ferrovieri, tranvieri e autisti) poiché venivano a contatto con un ampio numero di malati.

Nelle città la situazione non era da meno. Sempre in ottobre, a Torino, i morti arrivavano a 400 al giorno ma il Capo del gabinetto, Vittorio Emanuele Orlando, aveva imposto una severa censura. Era stato proibito il rintocco funebre delle campane, così come gli annunci mortuari, i cortei e i funerali, per non demoralizzare la nazione.

Conseguenze storiche

L’influenza spagnola riconfigurò radicalmente la popolazione umana più di ogni altro evento successivo alla peste nera del 1347-‘52. Ha contribuito a segnare le sorti della prima guerra mondiale tanto che la propaganda bellica alleata aveva sfruttato la spagnola diffondendo in Germania il seguente volantino: «Recitate il Padrenostro perché nel giro di due mesi cadrete in mano nostra; allora mangerete carne e prosciutto e l’Influenza vi abbandonerà».

Probabilmente la terribile pandemia pose anche le basi per lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Tuttavia ebbe anche il ruolo di incentivare la pratica delle attività all’aria aperta e dello sport e il merito di contribuire alla diffusione dell’assistenza sanitaria universale.

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