Cosa non faremmo per vivere tranquilli e sereni? In armonia: col mondo, con gli altri e pure con noi stessi. Galleggiamo in un’esistenza che ci vuole sempre sani, attivi, svegli, efficienti; «performanti», come si usa dire oggi con un termine orrendo. Pronti a scattare, a produrre, ad adattare il nostro fisico e la nostra mente alle novità e agli imprevisti di ogni giorno sul lavoro, ma anche a casa, in famiglia, con le persone che frequentiamo. Sentiamo di dovere essere indiscriminatamente accettabili e adeguati alle più svariate situazioni, in automatica sintonia con qualsiasi contesto ci si presenti.
Un bel vortice di sollecitazioni, non c’è che dire. Ognuno regge come può, perché andare avanti si deve. Ma il minimo che possa accadere è che spesso – e non volentieri - si venga travolti da una sorta di ansia da prestazione, la stessa che in ambito sessuale è foriera di fallimenti e che, applicata alla sfera sociale, ci condiziona pesantemente, offuscando e paralizzando le nostre reali potenzialità.
Ma allora a che cosa appellarsi per trovare un equilibrio che allevi il nostro malessere profondo, fornendoci la possibilità di tirare fuori il meglio di cui siamo capaci?
Un suggerimento a dir poco geniale, ci arriva dalla Francia, elaborato da Fabrice Midal, uno dei più grandi esperti europei di meditazione. Ed è tutto racchiuso nel titolo originale del suo ultimo libro. Siete pronti a registrarlo nel vostro cervello come una formula magica? Eccolo: «Lasciatevi in pace». Una soluzione facile e a portata di mano, sintetizzata in questa breve esortazione, un imperativo fatto di tre parole, semplice e chiarissimo.
«Foutez-vous la paix», pubblicato da Flammarion, è uscito l’anno scorso e nel paese di nascita ha raccolto ottime critiche. Nella versione italiana, la New Compton Editori, ha scelto per il lancio in copertina un assunto meno aulico e più confidenziale, concedendosi una innocua parolaccia che spiegasse al lettore che la maggior parte delle convinzioni nelle quali si è auto-imprigionato «Sono tutte stronzate» (sottotitolo «il metodo francese per superare i sensi di colpa: non serve essere perfetti») .
In Francia, il magazine Elle, ha definito il concetto sviluppato nel manuale «il consiglio più rivoluzionario del 2017». Ed è vero, perché ciò che Midal predica, non è di sforzarsi ad agire in un certo modo, ma, al contrario, di cessare di dare il tormento a se stessi su come sarebbe meglio comportarsi. Ogni capitolo del libro è fedele alla legge del mollare gli ormeggi e come un mantra, tutte e 15 le sezioni invitano a «smettere» di fare o essere qualcosa. «Smettete di essere calmi», «Smettete di essere saggi», «Smettete di paragonarvi agli altri», «Smettete di frenarvi» e via di seguito.
«Ci martirizziamo dal mattino alla sera – spiega l’autore – Non siamo mai soddisfatti di chi siamo e di che cosa facciamo e così aumentiamo la pressione sul nostro io. Dobbiamo piantarla. E questo non significa che diventeremo all’improvviso ottimi genitori, splendidi colleghi e fantastici amanti. Ma di certo ci accorgeremo delle risorse che possediamo e la smetteremo di massacrarci tentando di essere qualcun altro».
Fabrice Midal, parigino, classe 1967, è filosofo e fondatore dell’«École occidentale de meditation». Sul metodo anti-stress che costituisce il fulcro di questa sua ultima pubblicazione, tiene seminari in varie parti del mondo ma «soltanto nei Paesi di lingua francofona», come è costretto a precisare quando gli chiediamo se avremo prima o poi l’opportunità di partecipare a una sua lezione qui in Italia.
Gli incontri che organizza in patria sono affollatissimi. Midal, vestito con abiti dai colori caldi e allegri, se ne sta seduto in poltrona su un palco e di quando in quando interrompe il suo soliloquio per bere un sorso d’acqua. Sembra tutto molto naturale, si ha la sensazione che stia parlando a braccio. In realtà non è stato semplice neppure per lui arrivare a questo livello di consapevolezza. «Avevo paura di scoprire il mistero della vita e di indagare a fondo la mia interiorità – ci confida – E’ stato un lungo percorso che infine mi ha portato a conoscere il vero me stesso e oggi eccomi qui a provare ad aiutare gli altri».
Nel libro racconta del suo primo approccio alla meditazione, iniziato 25 anni fa quando era uno studente universitario e faceva fatica a procedere negli esami. L’incontro con il biologo e filosofo cileno Francisco Varela (scomparso poi nel 2001) gli apre un mondo. Partecipa ai suoi raduni e scopre una via. «Per la prima volta non avevo niente in cui dovevo riuscire – spiega – mi bastava essere nella situazione e tornare ad avvertire la mia presenza corporea e il mio respiro… Alla fine mi sono sentito a casa».
Decide così di diventare egli stesso un insegnante di mindfulness, sebbene molti provassero a scoraggiarlo pronosticandogli un sonoro fallimento per via della sua impostazione. «Cosa potevo comunicare dal momento che iniziavo i miei incontri spiegando che la meditazione non rende più produttivi, né più efficienti, che non fa mettere giudizio e che, fondamentalmente, nel senso comune, non serve a niente?».
E invece la strada si rivela quella giusta. Studia e condivide il pensiero di grandi filosofi come Wittegenstein al quale si ispira nella ricerca di una libertà dello spirito: «Nei suoi diari – ricorda Midal – egli esprime riprovazione verso la saggezza…verso l’ipocrisia accademica, verso la freddezza dei dibattiti intellettuali. Estranei al fermento e al calore della realtà… Racconta dei suoi incontri con la gente comune, coloro che effettivamente vivono la benevolenza, l’amore, la preoccupazione di un discorso giusto».
Fa propri questi elementi l’autore francese e prova ad andare oltre: «Io oppongo alla saggezza spaventosa come la intendiamo noi, l’entusiasmo che solo, con l’ardore che contiene, guarisce e cambia il mondo. Ci permette di lasciare la nostra zona di comfort, di uscire da noi stessi per andare verso qualcosa di più grande».
Saggezza intesa come zavorra, dunque. Qualcosa che ci allontana da quella benefica e salvifica «leggerezza» alla quale il nostro Italo Calvino aveva dedicato una delle sue pregiate Lezioni Americane.
In un capitolo di «Sono tutte stronzate», Fabrice Midal ci invita a diffidare della nostra volontà di capire tutto. Sbagliamo quando assilliamo noi stessi con le domande sui massimi sistemi: «Devo cambiare lavoro, o azienda, o stile di vita perché queste cose hanno avuto un effetto nocivo sulla mia esistenza?...Valutiamo all’infinito i pro e i contro, lasciamo passare mesi, anni, per poi riprendere i nostri calcoli e sentirci invadere dal terrore perché la colonna dei “contro” non è mai vuota. E alla fine restiamo dove siamo, a piangerci addosso e rimpiangere “Ah, se solo avessi…”».
Tormenti inutili e dannosi, bisogna che impariamo a «lasciarci in pace».
Nella vita privata dell’autore di «Foutez-vous la paix» c’è un passaggio delicatissimo che non racconteremo qui per rispetto a certe pagine di storia costellate di tragiche vicende umane. Nel libro, quel momento, viene descritto proprio per far comprendere quanto inefficace possa essere l’ostinazione a cercare di capire e razionalizzare ogni cosa. «Ho mollato la corda logora alla quale mi ero aggrappato e ho saltato - spiega Midal -, credendo di lanciarmi nel vuoto, quando in realtà avanzavo finalmente verso la vita….Ho accettato l’incertezza…Ho smesso di cercare di capire il perché e sono entrato in relazione con quel dolore…. La nostra esistenza non è un’equazione matematica e non accanirsi a capire tutto è l’unico modo per essere davvero fedeli al senso dell’esistenza umana».
Anche la banale quotidianità, non manca di spunti che ci possono far pensare all’utilità del paradigma ideato dallo scrittore. Pensiamo a quante volte ci è capitato di darci degli imbecilli da soli. Lo studioso parigino fa l’esempio di una signora che aveva incrociato in metropolitana: senza rendersene conto, quella donna si era messa a pensare ad alta voce ed egli l’aveva udita borbottare: «Che stupida che sono! Sono proprio una stupida». Presa dalle sue mille preoccupazioni, si era scordata di scendere alla fermata che le interessava e ora martirizzava se stessa per aver commesso quell’errore. «Siamo il nostro giudice peggiore – argomenta l’autore nel capitolo “Smettete di torturarvi” – Una vocetta dentro di noi commenta ogni nostra azione, ogni nostro pensiero, con una severità che saremmo incapaci di usare verso chiunque altro. Con una parzialità, un accanimento che non appartengono più all’ambito della critica, ma della vessazione».
Spesso è così e quel che saremmo in grado di dire amorevolmente all’amico o al conoscente, a noi stessi lo precludiamo e manchiamo di assolverci. «Siamo estremamente maldestri con noi stessi – spiega Midal - … talmente impegnati a rimproverarci e a mortificarci….a dirci che non valiamo niente...che alla fine non concentriamo le nostre energie sulla situazione presente così com’è».
Insomma, proviamo a fare come ci suggerisce questo libro. Lasciamoci un po’ in pace. Altrimenti c’è il rischio di finire come quel tizio descritto proprio da Wittgenstein. Quello che, trovatosi rinchiuso in una stanza, cerca di uscirne in tutti i modi più complicati. Prima si arrampica verso la finestra che però sta troppo in alto; poi cerca di passare per il camino che ahimè è troppo stretto. Tutta fatica sprecata. Gli sarebbe bastato voltarsi per accorgersi che la porta era rimasta aperta tutto il tempo.
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