Aumentano i casi di diabete di tipo1: +3,4% l’anno in Europa e se la tendenza dovesse continuare invariata, l’incidenza del diabete di tipo1 potrebbe raddoppiare in vent’anni. L’allarme arriva da uno studio apparso su Diabetologia, la rivista dell’EASD, la European Association for the Study of Diabetes.
Nello studio, coordinato dal celebre epidemiologo Chris Patterson della Queen’s University a Belfast e che vede tra gli autori anche Valentino Cherubini, direttore di Diabetologia Pediatrica presso l’Azienda Ospedaliero Universitaria Ospedali Riuniti di Ancona, gli autori hanno analizzato l’incidenza di diabete di tipo 1 tra i bambini di 0-14 anni di 26 centri diabetologici europei (rappresentativi di 22 paesi UE) che hanno registrato le nuove diagnosi tra 1989 e 2013.
«Uno studio la cui importanza sta anche nel riportare l’attenzione sul diabete di tipo 1 che, per quanto costituisca il 10% dei casi di diabete, rimane il più impattante sulla vita del paziente per la giovane età d’esordio» spiega il professor Agostino Consoli, presidente eletto della Società Italiana di Diabetologia e professore ordinario di endocrinologia dell’Università di Chieti, che ricorda comunque come «oggi, se ben curato, chi ha il diabete di tipo 1 ha un’aspettativa di vita che è pari a quella di chi non ha il diabete».
La malattia. Il diabete tipo 1 è una patologia autoimmune in cui il sistema immunitario riconosce come estranee le cellule del pancreas che producono insulina, creando infiammazione e distruggendole determinando così il deficit assoluto di questo ormone. È conosciuto come diabete giovanile perché insorge nell’infanzia e nella giovinezza. In Italia si stima vi siano 15 mila pazienti con diabete 1 sotto i 15 anni di età.
Le ragioni dell’aumento. Dallo studio, emerge che un paese come la Polonia ha registrato un picco di aumenti (+6,6%), «probabilmente anche per la maggior capacità di diagnosticare», commenta il professor Consoli. «Le regioni europee con una maggior incidenza di diabete di tipo 1 sono storicamente la Sardegna e i Paesi scandinavi, che dallo studio non sono i paesi che registrano gli aumenti maggiori». Inoltre, come hanno commentato gli autori del lavoro, non ancora in grado di interpretare il fenomeno, l’aumento dei nuovi casi sembrerebbe suggerire la presenza di fattori ambientali scatenanti.
Tra i possibili candidati, ci sono i virus o l’esposizione a sostanze chimiche, «ma finora non abbiamo a disposizione evidenze di un loro ruolo causale nel determinare l’insorgere della malattia» spiega Consoli. Che aggiunge «negli anni sono stati indagati anche altri aspetti potenzialmente scatenanti come l’ambiente intrauterino o l’esposizione precoce al latte vaccino ma, di nuovo, non sono emerse evidenze del loro ruolo causale nell’innescare la malattia».
@nicla_panciera