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Per molti la montagna è salute: perché permette di camminare e di respirare aria pulita, soprattutto. Le vette innevate possono essere d’aiuto anche per la salute psichica, soprattutto per chi durante l’inverno avverte un calo del tono dell’umore. Ma la montagna, vale la pena di ribadirlo ora che la stagione è alle porte, non sempre è considerabile la meta ideale per tutti. In particolare, chi soffre di problemi cardiovascolari potrebbe essere costretto a non andare oltre una certa quota. O a raggiungerla comunque adottando alcune cautele.

Andare in quota con cautela

È questo il dato che emerge da un documento pubblicato pochi mesi fa sull’«European Heart Journal», che non fornisce però una risposta chiara a tutte le persone con un cuore bizzoso. Ma perché una sola indicazione, dati alla mano, non può essere valida per tutti. Secondo gli esperti, bisogna considerare da un lato gli aspetti ambientali (come la velocità di salita, la quota da raggiungere e la temperatura) e dall’altro le caratteristiche personali (allenamento, storia clinica, stabilità dei problemi cardiovascolari, terapie in corso ed esami diagnostici recenti). Ecco spiegato perché non può dunque esserci un’indicazione valida per tutti. Qualche indicazione generalizzabile, però, esiste.

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«Occorre valutare con il medico la propria condizione, per poi personalizzare il consiglio - afferma Gianfranco Parati, direttore dell’unità operativa di cardiologia dell’Istituto Auxologico San Luca di Milano -. Bisogna effettuare una precisa stima del livello di rischio cardiovascolare individuale prima di avventurarsi, anche perché alcuni problemi possono essere non ancora manifesti. Occorre inoltre prevedere un adeguamento della terapia nei soggetti più a rischio. Il paziente cardiologico non deve necessariamente privarsi del piacere della montagna, ma la deve affrontare con serietà, consapevolezza, prudenza e preparazione, basandosi su dati scientifici e sulla propria storia personale».

Se in quota il cuore fa le bizze

L’esposizione ad alta quota, definita come una quota maggiore di 2500 metri sul livello del mare, comporta uno sforzo da parte dell’organismo per adattarsi, che dipende dalla serie di modificazioni ambientali di intensità progressiva che si osservano all’aumentare dell’altitudine. Fra queste, la più rilevante in termini di effetti sull’organismo è la riduzione della pressione atmosferica. Al ridursi della pressione, si osserva una rarefazione delle molecole presenti nell’aria: azoto, ossigeno e anidride carbonica.

Da qui il fenomeno noto come ipossia ipobarica, che porta l’organismo a registrare una carenza di ossigeno. In una persona esposta a ipossia ipobarica, e quindi durante il soggiorno in alta quota, si può osservare un aumento della frequenza cardiaca, della frequenza respiratoria, della pressione arteriosa e polmonare. Si osserva inoltre una riduzione dell’ossigeno e dell’anidride carbonica nel sangue e, talvolta, la comparsa di apnee del sonno. Nel caso di persone con pregresse malattie cardiache, vascolari o polmonari, l’esposizione ad alta quota può essere pericolosa, perché all’organismo, già indebolito dalla patologia di base, viene richiesto uno sforzo importante di adattamento.

«Da qui la necessità di valutare caso per caso il grado di stabilità del quadro clinico e la capacità di adattamento del cuore e dell’apparato vascolare. Questo può comportare la necessità di rivalutare la terapia in atto, in collaborazione con il proprio medico e con uno specialista adeguatamente preparato su questi temi», conclude l’esperto.

Twitter @fabioditodaro