Uno studio americano ha recentemente focalizzato la propria attenzione su come arginare l’ideazione suicida nei pazienti con fibromialgia. Dai dati disponibili, infatti, emerge che i pazienti affetti da fibromialgia sono 10 volte più a rischio della popolazione generale di morire per suicidio.
Secondo gli autori dello studio in questione la fibromialgia induce a pensare al suicidio, non tanto per il dolore che causa, quanto per i sentimenti di ansia, angoscia e panico che induce. Nello specifico nel lavoro di ricerca sono stati analizzati i dati relativi a 8879 pazienti con fibromialgia, raccolti fra il 1998 e il 2017. Di questi pazienti in 34 avevano concretamente messo in atto il tentativo di suicidio, mentre altri 96 ne avevano manifestato l’intenzione.
Fra questi pazienti, però, i meno inclini a pensare al suicidio sono stati quelli che si sono confrontati regolarmente con il proprio medico di base o che erano seguiti da uno psicologo-psicoterapeuta.
Qual è la prognosi della fibromialgia?
La fibromialgia si caratterizza per il dolore cronico persistente in tutto il corpo in assenza di alterazioni di laboratorio o di specifici biomarcatori. Ecco quindi che la diagnosi dipende principalmente dai sintomi che il paziente riferisce. Negli anni si è accertato che i pazienti con fibromialgia a differenza dei soggetti sani o affetti da patologie reumatiche, riferiscono dolore muscolo-scheletrico diffuso, presenza di specifiche aree algogene alla digitopressione i cosiddetti tender points, stanchezza cronica, disturbi del sonno, alterazioni neuro cognitive, modificazioni della soglia di percezione del dolore accompagnate da alterazioni neuroendocrine e/o psico-affettive.
Alcuni studi osservazionali non sono riusciti a definire chiaramente in che modo realmente la fibromialgia influenzi la qualità della vita per tutta l’esistenza di chi ne è affetto. Sembra che la mortalità del paziente con fibromialgia sia sovrapponibile a quella della popolazione generale, ma questi pazienti sono esposti a un elevato rischio suicidio, tanto che il rischio suicidio è molto più alto per i pazienti con fibromialgia piuttosto che per quelli affetti da dolore cronico lombare.
Questo dato lascia intuire quanto a istigare all’idea di farla finita non sia tanto il dolore fisico, che pure c’è e può essere anche invalidante, quanto la sensazione di essere dei malati immaginari. «Il suicidio presenta una prevalenza maggiore nei soggetti fibromialgici rispetto alla popolazione di controllo perché la sindrome presenta una serie di sintomi clinici che modificano profondamente la qualità di vita di questi pazienti- chiarisce Piercarlo Sarzi Puttini, Specialista in Reumatologia, Medicina Interna, Terapia Fisica e Riabilitazione e Professore in Reumatologia presso l’Università degli Studi di Milano che aggiunge - Il vero problema è che questi pazienti assolutamente non vanno etichettati come depressi o peggio, come malati immaginari ovvero come persone che non hanno voglia di lavorare, assenteisti e che si inventano una malattia che non è clinicamente provabile. Purtroppo la classe medica non è spesso preparata a gestire queste persone, stritolati non di rado da un sistema che assegna loro un numero tale di pazienti difficili da seguire adeguatamente».
L’importanza di non isolarli
Ecco perché è così importante che il paziente con fibromialgia non viva isolato: deve trovare conforto e comprensione nella famiglia, da parte del proprio medico di base, come dello specialista reumatologo. Deve essere preso in cura da una rete integrata in grado di affrontare la malattia in ogni sua sfaccettatura, costituita quindi da medico di medicina generale, da specialisti e da personale sanitario quali psicologi e terapisti della riabilitazione.
Questi pazienti, più degli altri forse, hanno bisogno di sapere che non sono soli: ben vengano quindi tutte le iniziative volte a non isolarli quali l’istituzione di gruppi di supporto, di auto aiuto, le pubblicazioni e tutte le informazioni web e cartacee in proposito. «Ovviamente nella gestione del paziente con fibromialgia occorre partire da una diagnosi corretta, per poter strutturare di conseguenza un adeguato supporto terapeutico che non può prescindere dall’ empatia tra personale sanitario, ambiente di lavoro e ambiente familiare che tutti insieme, devono sostenere il paziente. Ma questo vale per tutti i malati cronici ed è una grave carenza del nostro sistema sanitario nazionale» conclude il professor Puttini.