«L’opera lirica mi piace molto, ma ne capisco poco».
Quante volte abbiamo sentito dire questa frase che denuncia tutta la latitanza della scuola, delle Istituzioni e della tv nel divulgare un patrimonio per il quale il nostro Paese è ammirato - in modo incondizionato – nel mondo.
Come dimostrano gli incassi estivi degli enti lirici per gli spettacoli a beneficio soprattutto dei turisti, l’opera è una miniera d’oro sfruttata ancora in minima parte.
Il suo valore è ben spiegato da una recente petizione dell’Associazione Cantori Professionisti d’Italia che propone all’Unesco di riconoscere il Belcanto e l’Opera italiana come patrimonio immateriale dell’umanità.
Scena da La Cenerentola di G. Rossini
Eppure, non c’é niente di più materiale dell’utilizzo della voce come uno strumento musicale: muscoli, ossa, cartilagini e respiro coordinati da una magistrale tecnica affinata per secoli, una vera e propria “arte marziale” che consente alla voce umana di rendersi perfettamente udibile in teatro, smaltata e tonante, superando la barriera sonora dell’orchestra senza utilizzare microfoni. Il tutto, con la minima usura per l’organo vocale e il massimo rendimento acustico.
1. Dal basso profondo al soprano di coloratura.
Un po’ come avviene per la famiglia degli archi, anche le voci umane, femminili e maschili, si articolano in registri diversi per colore, timbro ed estensione.
Se al violino possono essere apparentate le voci chiare e squillanti del soprano e del tenore, alla luce morbida e brunita del violoncello è naturale paragonare quelle del mezzosoprano e del baritono, così, al suono scuro e vibrante del contrabbasso, quelle del contralto e del basso.
Dopotutto, anche nella laringe umana, la diversità dei registri è data dalla lunghezza e dallo spessore delle corde vocali. Le voci maschili sono collocate a un’ottava inferiore rispetto a quelle delle donne poiché la laringe dei ragazzi si ingrossa durante la pubertà, con lo sviluppo del Pomo d’Adamo rendendo la voce più scura e profonda.
Talvolta, è possibile che un cantante inizi a studiare in un registro e poi, affinando la tecnica, scopra di appartenere a un altro. Ad esempio, il grande tenore Carlo Bergonzi iniziò a studiare da baritono, mentre il suo collega Placido Domingo, da qualche anno, prova a rinnovarsi in un registro baritonale, sebbene con risultati non unanimemente apprezzati.
Il tenore Evan Gorga, primo interprete della Bohéme di Puccini
2. Quanto conta la statura fisica
La conformazione laringea, in vari casi trova una rispondenza nel tipo fisico, pur facendo salve molte eccezioni. Tradizionalmente, la corporatura tenorile appare piuttosto tarchiata, con collo corto e bassa statura, mentre, paradossalmente, i bassi sono quasi tutti uomini alti e imponenti.
Ecco perché, una volta, per un tenore, possedere un fisico longilineo ed elegante costituiva un’importante carta in più. Fu il caso del tenore Evangelista Gorga, primo interprete della Bohéme di Puccini nel 1896. Ancora agli inizi della carriera, venne scelto da Ricordi per impersonare il giovane poeta Rodolfo grazie anche al suo affascinante phisyque du role che molte invidie gli causava nell’ambiente.
Il tenore Aquiles Machado e il basso Riccardo Zanellato nel Don Carlo di Verdi
3. Chilogrammi corporei e decibel
Per quanto oggi, nel mondo dell’opera di alto livello, sia fondamentale possedere un fisico quasi da attore, un cliché non del tutto scomparso vuole il cantante abbondantemente sovrappeso, soprattutto per le voci di soprano e tenore.
Vari sono i fattori all’origine di un’obesità che, contrariamente a quanto si crede, non aiuta affatto l’emissione vocale, anzi. Va detto che il forte stress nervoso che caratterizza tale professione può causare fenomeni di fame compulsiva. A questo si aggiunga una certa sedentarietà nell’intento di riguardarsi dai malanni. Un raffreddore, per un cantante, è un vero dramma: può significare la rinuncia a un sudato contratto, oppure una figuraccia in pubblico, anche eventualmente fatale per la propria carriera.
Quando la tecnica vocale non basta ad ovviare ai malanni o all’affaticamento, il rischio è quello di cadere nell’uso – e spesso nell’abuso – di cortisone che, se riduce temporaneamente le infiammazioni laringee, come noto, porta a un innaturale ingrassamento.
Maria Callas prima della dieta nel 1952
4. La dieta di Maria Callas: davvero ingoiò una tenia?
Tra i pochi artisti che siano riusciti a dimagrire, bisogna ricordare Maria Callas che, dai cento kg riuscì a sfiorare i 54. Sul suo dimagrimento lampo circola la nota leggenda secondo la quale la Divina avrebbe ingerito una tenia in una coppa di champagne. La cognata, Pia Meneghini raccontava invece di pericolose iniezioni alla tiroide, ma altri riferiscono di una dieta che oggi definiremmo «paleo-proteica» a base di pollo bollito e verdure, associati a molto movimento fisico.
5. Troppe morti improvvise sul palcoscenico
Secondo alcuni critici musicali è in atto un fenomeno preoccupante: negli ultimi anni, la morte precoce di vari cantanti sarebbe dovuta proprio all’abuso di cortisone e di altre sostanze “dopanti”.
Nel passato, il mercato dell’opera e gli impresari erano più rispettosi della fisiologia degli artisti lirici, i quali, dal canto loro, sapevano amministrare la propria voce con maggiore prudenza, evitando repertori superiori alle proprie possibilità e dando forfait alla minima indisposizione. Questo permetteva loro lunghe carriere e altissimi perfezionamenti in pochi ruoli, al contrario di quanto mediamente accade oggi.
Il tenore wagneriano Ludwig Schnorr von Carolsfeld con la moglie Malvina
Tuttavia, anche nel passato si moriva di canto: si dice che fu proprio l’enorme sforzo fisico ed emotivo richiesto dal Tristano e Isotta di Wagner a stroncare, nel 1865 a soli 29 anni,il suo primo interprete, l’eccellente Heldentenor (tenore eroico) Ludwig Schnorr von Carolsfeld.
Ancor oggi, il repertorio wagneriano è appannaggio dei «pesi massimi» fra i cantanti, dato che richiede grande prestanza fisica e vocale.
Noduli
6. Noduli alle corde vocali
Al di là dei malanni passeggeri, ben più gravi, se non fatali, risultano per il cantante i danni provocati da iperlavoro o da una tecnica scorretta. Il vizio di forzare la voce («spingere» in gergo) o un’impostazione «ingolata» possono produrre i temuti noduli alle corde vocali. Si tratta di lesioni, inspessimenti e callosità che spezzano o afonizzano la voce, a volte in modo permanente. Per guarire, sono necessari interventi chirurgici, periodi di forzato riposo (addirittura senza parlare) o lunghi esercizi di logopedia.
7. L’importanza di una corretta didattica
L’insegnamento del canto è una importante responsabilità per i danni fisici e psicologici che può produrre nell’allievo tanto che, fino ai primi anni ’40, per poter insegnare canto, anche privatamente, occorreva una precisa abilitazione da parte dello Stato.
Il maestro di canto Manuel Garcia a cento anni in un ritratto di John Singer Sargent
Non a caso, i cantanti italiani dell’epoca, che possiamo ascoltare nei vinili, vantavano voci perfettamente impostate secondo una tecnica che si basava su principi e precetti condivisi: lo studio del passaggio di registro, il canto «sul fiato» e «appoggiato in maschera». Negli ultimi decenni, in molti si sono improvvisati maestri distruggendo voci promettenti. Per i giovani che si avvicinano allo studio del canto è buona regola tenere a mente che se dopo la lezione si finisce esausti, afoni e con le idee confuse, è meglio cambiare maestro in tutta fretta.
8. Una strada lunga e difficile per educare la voce
A differenza degli strumentisti, che si trovano a imparare a suonare uno strumento già pronto, il cantante è anche «liutaio di se stesso», essendo il costruttore, oltre che il suonatore, del proprio strumento. Si tratta di un studio lungo e difficilissimo il cui successo non è scontato. Non tutti riescono a comprendere i dettami di un insegnamento lasciato ancor oggi a suggerimenti empirici che spesso si avvalgono di un gergo antico e oscuro che impiega espressioni come «appoggio», «sostegno», «raccoglimento», «passaggio», «colpo di glottide», «affondo».
Non tutti sono così fortunati da capitare al centro di un alchimia di fattori in cui si mescolino le doti naturali, l’istinto, la sintonia con un maestro che, oltre ad essere competente tecnicamente, sia anche un bravo maieuta. Molto è lasciato all’intelligenza e allo spirito critico dello studente, il quale spesso affronta una lunga e costosa ricerca tra vari insegnanti prima di raggiungere le proprie illuminazioni.
9. Voce e psiche: battito cardiaco regolare, ma attenti allo stress
Recenti studi hanno dimostrato come il canto, anche leggero e amatoriale, sia un toccasana che favorisce il benessere del corpo e della mente. Abbassa lo stress e aumenta le difese immunitarie, regolarizza il battito cardiaco, stimola la circolazione e favorisce la respirazione migliorando l’afflusso d’aria ai polmoni.
Lo studio del canto lirico a livello professionale può essere, tuttavia, rischioso per l’equilibrio psicologico. Il rapporto tra voce e psiche è molto stretto e, sovente, a una cattiva o incompleta impostazione vocale corrispondono insicurezze e malesseri interiori che possono essere ancor più amplificati da mancato riconoscimento professionale, o da frustrazioni causate dalla difficoltà di emissione.
Un buono studio, invece, oltre a potenziare i già citati benefici fisici, può costituire un efficacissimo esercizio di «Mindfulness», che dona estrema consapevolezza, autodisciplina e dominio di sé e delle proprie emozioni.
10. Voce e spiritualità: che cosa ci insegna la tradizione orientale
Un antico detto recita: «Chi ben canta prega due volte». Anche nella tradizione mistica orientale, per quanto essa si sia sviluppata lontano dalla scuola vocale italiana, alcune forme meditative utilizzano la voce in un modo parzialmente associabile ad essa. Se pensiamo all’«Ommm» o al mantra «Mam myhoo renge kyo» di eredità buddista possiamo dire che essi richiamano alcuni esercizi belcantistici dove la vocalizzazione con MI-O e il canto a bocca chiusa sono prassi abituale.
11. La maschera
Sia gli uni che gli altri esercizi sono infatti funzionali al cosiddetto «immascheramento della voce», ovvero al trasferimento del controllo del suono dalla gola ai risuonatori ossei del cranio. In tal modo, si crea una «libera risonanza» che, mentre nella pratica mistica può condurre a uno stato meditativo molto profondo, nel canto lirico produce l’«eco scheletrico», come lo definiva il celebre foniatra Alfred Tomatis.
Tale fenomeno, producendo il cambiamento dell’onda sonora, genera quel suono particolare, metallico, intenso, lucido e potente che tutti conosciamo. Varie culture e civiltà avevano intuito le possibilità della maschera: ancor oggi, riconosciamo l’uso delle componenti nasali nei melismi dei muezzin islamici, mentre quelle palatali caratterizzano maggiormente la scuola di canto sinagogale.
Nessuna scuola come quella belcantista italiana ha però portato all’estremo le possibilità della voce umana, arricchendola non solo di squillo, corpo e penetranza, ma anche di rotondità e agilità, con risultati estetici ed espressivi ineguagliati. Quest’arte si sviluppò tra il 1600 e i primi del ‘900.
Nell’Ottocento, l’evoluzione della tecnica vocale toccò forse l’apogeo e condusse alla “nascita” delle voci mediane del mezzosoprano e del baritono. Fino ad allora, infatti, i compositori scrivevano solo per tenori, bassi, soprani e contralti.
12. Il banco di prova: non sono tutti «fuoriclasse»
«I cantanti si giudicano in teatro», recita una vecchia frase dell’ambiente lirico. Mai come oggi, la riproduzione tecnica della voce semina confusione nel pubblico: voci che in registrazione sembrano enormi, in teatro risultano flebili; così come altre che, in una sala d’audizione paiono «piccole», nella cavea del teatro si sviluppano a dismisura.
Non deve quindi stupire se l’inflazionato titolo di «erede di Pavarotti» sia stato attribuito ad artisti di pop-opera che mai hanno mietuto, dal vivo, gli allori del Maestro modenese, il cui canto dominava coro e orchestra con adamantino splendore. Solo il teatro costituisce, oggi come allora, il banco di prova essenziale per valutare la qualità di una voce e di un artista lirico.
Lo sapevano bene i nostri nonni e bisnonni che vi si recavano con una partecipazione emotiva quasi «calcistica» e una diffusa conoscenza delle opere di repertorio. Essi sapevano gustare non solo la bellezza del melodramma, ma anche il gesto «atletico-circense» di questo o quel cantante, per godere della sua arte e delle sue doti naturali, semmai aspettandolo alle forche caudine di un «Do di petto», o di una difficile cadenza, per applaudirlo con entusiasmo, o per fischiarlo senza pietà.
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