L’ictus cerebrale è una malattia grave e disabilitante, che ogni anno nel mondo colpisce circa 15 milioni di persone e rappresenta la terza causa di morte, la prima di invalidità e la seconda di demenza; nel nostro Paese sono circa 120.000 i soggetti colpiti e quelli che sono sopravvissuti, con esiti più o meno invalidanti, sono oggi circa 1 milione. I fattori di rischio sono l’ipertensione arteriosa, l’obesità, il diabete, il fumo, la sedentarietà ed alcune anomalie cardiache e vascolari.
LA DEMENZA DOPO L’ICTUS
Il benessere del cervello dipende dalla salute dei suoi vasi e dal corretto e puntuale afflusso di sangue. Il problema vascolare può portare da solo a deficit cognitivi importanti ma può aggravare anche un concomitante processo di neurodegenerazione di altra natura, un fatto oggi poco considerato da chi tratta l’evento acuto ma che va tenuto in considerazione fra le conseguenze di medio e lungo periodo dell’ictus. Un terzo dei pazienti colpiti, infatti, presenta un deterioramento cognitivo grave 6 mesi dopo l’evento e in Italia ci sono 50mila nuovi casi di demenza correlati.
IL TRATTAMENTO ACUTO
Il tempo trascorso dall’ictus all’intervento terapeutico ha un ruolo decisivo sulla prognosi in termini di mortalità e di disabilità cognitiva e motoria. Come in ogni emergenza medica tempo-dipendente, anche nell’ictus ischemico il trattamento sarà tanto più efficace quanto più è precoce, con lo scopo di impedire al tessuto cerebrale privato di ossigeno di andare incontro a morte. «La trombolisi farmacologica, che consiste nell’iniezione endovenosa di un agente in grado di sciogliere i trombi e ridurre la capacità di coaugulazione del sangue (rischio di emorragie), serve per disostruire l’arteria cerebrale occlusa» spiega Luca Valvassori, neuroradiologo interventista dell’Ospedale San Gerardo di Monza. «In caso di occlusione di un grosso vaso, si può precedere con la trombectomia meccanica che, per via endovascolare, consente di eliminare il trombo aspirandolo con speciali pompe o catturandolo fisicamente con uno stent retriever», una specie di calza metallica agganciata a un piccolo catetere con cui si può ingabbiare il trombo per estrarlo. I risultati della trombectomia sono buoni, ha spiegato Valvassori alla XXVIII Riunione annuale della Società Italiana di Neurologia SIN e della Società dei Neurologi, Neurochirurghi e Neuroradiologi Ospedalieri SNO Lombardia: «Lo studio Adapt Fast mostra la tromboaspirazione riesce a rivascolarizzare il 78% dei pazienti entro 15 minuti dall’inizio della procedura, e lo studio Trevo mostra che l’uso dello stent retriever ha l’80% di capacità di riaprire i vasi».
SEMPRE MENO CONTROINDICAZIONI AL TRATTAMENTO
L’INNOVAZIONE
La selezione dei possibili candidati al trattamento, in particolare nel caso di interventi da praticare a molta distanza dall’evento acuto, richiede il ricorso a tecniche di neuroimmagini avanzate come la TC di perfusione o la risonanza magnetica proprio per selezionare quei pazienti in cui vi sia ancora tessuto cerebrale che può essere salvato, indagine che devono essere eseguite e interpretate molto rapidamente. I dati che si ottengono con queste metodiche sono molto complessi ma sono già disponibili «software in grado di analizzarli rapidamente ed in modo automatica fornendo al clinico l’indicazione ad intervenire o meno a seconda della situazione del paziente - spiega Valvassori - valutando l’estensione del danno ischemico ormai irreversibile rispetto all’estensione del tessuto cerebrale ancora salvabile se il paziente viene trattato con le terapie della fase acuta».
NON ABBASTANZA I PAZIENTI TRATTATI
La trattabilità di pazienti anziani e a molte ore dall’evento rende ancora più evidente il grosso problema della mancanza di reti ospedaliere appropriatamente organizzate che consentano percorsi rapidi ed efficienti prima e dopo l’arrivo in ospedale. «Alla luce dei nuovi studi, i britannici hanno calcolato che con un investimento di 400 milioni sterline per organizzare l’intervento tempestivo, il risparmio ammonta a 1,3 miliardi in 5 anni» spiega Valvassori che denuncia la mancata organizzazione del territorio italiano «in reti efficienti. Tant’è che ancora non si è visto l’aumento di pazienti, quell’invasione paventata all’inizio dell’istituzione dei modelli hub-and-spoke». Ci sono ormai molti centri sul territorio in grado di praticare la trombectomia meccanica, procedura relativamente rapida, in genere 15-20 minuti. I rischi maggiori ora dipendono dai ritardi con cui essa viene avviata. Per questo, ribadisce Valvassori, «funzionale e necessaria per l’organizzazione in reti è la raccolta dei dati di efficienza di ogni singolo passaggio per ciascun centro che pratica queste procedure».
Che l’organizzazione sia cruciale emerge anche dall’Action Plan for Stroke in Europe 2018-2030, i cui obiettivi sono, come ricorda Valeria Caso, membro del direttivo dell'Osservatorio Ictus Italia e Past President della Europe Stroke Organization, «ridurre il numero assoluto di casi di ictus in Europa del 10%; trattare il 90% o più dei pazienti colpiti da ictus in Europa all’interno delle stroke unit, come primo livello di cura; favorire l’adozione di piani nazionali per l'ictus che comprendano l'intera catena di cura, dalla prevenzione primaria fino alla vita dopo lo stroke, e implementare strategie nazionali per interventi multisettoriali di sanità pubblica che promuovano e facilitino uno stile di vita sano e riducano i fattori ambientali (incluso l'inquinamento atmosferico), socio-economici ed educativi che aumentano il rischio di ictus».