Mentre in Italia si festeggia il 40esimo compleanno della legge 194 che ha depenalizzato l’aborto nel nostro paese, il prossimo venerdì in Irlanda i cittadini saranno chiamati alle urne per decidere se legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza. In particolare, il referendum riguarda l’abrogazione di un articolo della Costituzione, meglio noto come ottavo emendamento. Si tratta di un articolo aggiunto nel 1983, che di fatto rende illegale l’aborto. Praticamente sempre. Anche nei casi estremi, come lo stupro, l’incesto o malattie gravi del feto. Ad oggi in Irlanda, l’aborto è consentito solo se la vita della donna è in pericolo, un’eccezione che deriva dal “Protection of Life During Pregnancy Act”, una legge approvata nel 2013 in seguito alla morte nel 2012 di una donna incinta, alla quale era stato rifiutato un aborto.
IRLANDESI A FAVORE DELLA LEGALIZZAZIONE DELL’ABORTO
Attualmente in Irlanda chiunque procuri o aiuti una donna a procurarsi un aborto, al di fuori dei ristrettissimi confini dell’attuale legge, rischia una condanna fino a 14 anni di carcere. Non vengono invece punite le interruzioni di gravidanza eseguite all’estero; e questo spinge migliaia di donne ogni anno a ricorrere a questa soluzione per aggirare il divieto. La meta più gettonata è Regno Unito. Non stupisce che, secondo diversi sondaggi, la maggioranza degli irlandesi, con una percentuale che oscilla tra il 50% e il 60%, è a favore della modifica alla costituzione. Tuttavia, sono numerose le polemiche riguarda alcuni slogan pro-aborto accusati diaver utilizzato in maniera “propagandistica” i bambini son sindrome di Down per promuovere l’aborto.
IN ITALIA POLEMICHE E NEGLI USA SI PROGETTANO TAGLI AI CONSULTORI
Anche il nostro paese non è meno incline alle polemiche sull’argomento. Anche se l’aborto è stato reso legale il 22 maggio del 1978, la legge 194 viene continuamente contestata, criticata e disapprovata. Di recente c’è stato il caso del manifesto choc affisso per la Capitale con la scritta «Aborto prima causa femminicidio». Ora è scoppiato il caso della nuova campagna dell’Associazione ProVita onlus: in cento province italiane circolano manifesti per dire che la legge 194 sull’aborto “è un fallimento” che avrebbe “impedito di nascere a sei milioni di bambini”. Ma questa deriva anti-abortista ha raggiunto anche gli Stati Uniti. Il Presidente Trump, infatti, ha proposto di tagliare i fondi federali per le cliniche che si occupano del controllo delle nascite e per tutte quelle strutture che praticano o suggeriscono l’aborto alle donne delle fasce più povere della popolazione. Il piano rientra tra gli impegni presi dal presidente americano durante la sua campagna elettorale e mira a ridurre i fondi per il Planned Parenthood, l’organizzazione no-profit che fornisce assistenza per la salute riproduttiva negli Stati Uniti.
**QUI DI SEGUITO TUTTO QUELLO CHE C’E’ DA SAPERE SULL’ABORTO**
Ecco l’iter per accedere all’aborto in Italia
Per legge una donna può effettuare un’interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica entro i primi 90 giorni e se è un aborto terapeutico entro il quarto o quinto mese. Per accedere alle procedure per l’interruzione volontaria di gravidanza la donna deve presentare un certificato che accerta lo stato di gravidanza e un documento che attesta la volontà di interromperla.
Se si è minorenni bisogna essere accompagnati da un genitore, oppure nel caso in cui non ci siano i genitori o non li si voglia informare, è l’assistente sociale che si rivolgerà al giudice dei minori, per far sì che quest’ultimo rilasci un certificato per l’autorizzazione all’aborto. Dal momento in cui si presentano i documenti richiesti bisogna rimanere in attesa per sette giorni, stabiliti come il tempo necessario a escludere ogni possibilità di ripensamento.
LEGGI ANCHE: POCHI CONSULTORI E PIUTTOSTO CARENTI
Dopo questa settimana, se la donna non ha cambiato idea, può recarsi presso una struttura idonea e ottenere l’interruzione attraverso due modalità: l’aborto farmacologico e l’aborto strumentale o chirurgico. Se poi il dottore sul certificato pone la dicitura «urgente», si può anche non aspettare i 7 giorni, ma andare direttamente ad abortire.
L’aborto farmacologico
L’aborto farmacologico, possibile in Italia dal 10 dicembre del 2009, avviene tramite la somministrazione di farmaci. E’ possibile accedere a questa procedura entro i primi 49 giorni dal concepimento, quindi solo in uno stadio molto precoce della gravidanza. Questo perché nel periodo successivo il rischio di non riuscita e di complicazioni potrebbe essere superiore rispetto all’attesa.
LEGGI ANCHE: TROPPI OBIETTORI TORNANO ABORTI CLANDESTINI
La paziente che sceglie di affrontare la via dell’interruzione farmacologica deve essere obbligatoriamente ricoverata per la durata del trattamento. Dopo avere effettuato alcuni accertamenti preliminari, la paziente assume per bocca una prima pillola. Si tratta del mifepristone, più conosciuto come RU486.
Questo farmaco blocca lo sviluppo embrionale e induce il distacco del feto dall’utero, determinando la fine della gravidanza. Nell’arco di alcune ore viene poi somministrato un secondo farmaco, contenente prostaglandine, che fa contrarre l’utero e consente il suo svuotamento in modo autonomo, senza bisogno di un accesso chirurgico.
L’interruzione farmacologica non è indicata in caso di allergie o ipersensibilità della paziente verso una o più componenti, e i suoi effetti collaterali possono manifestarsi sottoforma di tachicardia momentanea, eritema cutaneo, qualche disturbo intestinale. Vi è poi il rischio di emorragia locale, a causa dell’azione del farmaco che provoca lo sfaldamento dell’endometrio, lo strato più interno della mucosa uterina. E’ infatti per questo che la paziente viene tenuta in osservazione per diverse ore in seguito al trattamento. Altro limite di questa pratica è il raro caso in cui non venga completata del tutto l’espulsione del feto. In questo caso si rende necessario intervenire chirurgicamente.
L’aborto chirurgico
La paziente può scegliere la cosiddetta interruzione di gravidanza strumentalein alternativa a quella farmacologica durante i primi 49 giorni di gravidanza. Al 50esimo giorno, invece, diventa l’unica opzione. Per questa procedura è prevista l’ospedalizzazione per uno o massimo due giorni.
L’intervento consiste nella rimozione del prodotto di concepimento contenuto all’interno dell’utero per via chirurgica. La procedura avviene in pochi minuti e in anestesia. La tecnica più diffusa per praticarlo è l’isterosuzione, che consiste nell’uso di una cannula che, una volta inserita nell’utero e collegata a una pompa a vuoto, aspira l’embrione/feto e l’endometrio.
Un altro metodo, che viene ormai praticato molto poco, è quello della cosiddetta dilatazione e revisione: la dilatazione si effettua sul collo dell’utero con l’aiuto di una sottilissima pinza e la revisione (anche detta raschiamento) coincide con la rimozione del materiale. Le principali controindicazioni sono quelle legate alla necessità di operare in anestesia generale. Inoltre c’è il rischio di emorragie, di infezioni e di errori nella pratica chirurgica. Sono tutte complicanze comuni a tutti gli altri tipi interventi.
Le eccezioni dopo i 90 giorni dal concepimento
Ci sono casi in cui è possibile abortire anche dopo il 90esimo giorno di gravidanza. E’ infatti possibile accede a questa procedura quando la gravidanza o il parto comportano un grave pericolo per la vita della donna e nel caso subentrino complicazioni che possano costituire un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica. E’ quindi un aborto terapeutico per tutelare la salute della donna e non per impedire la nascita di un bambino per via del suo stato di salute. Per questo non basta solo ila richiesta della paziente, ma è necessario l’intervento di uno specialista che attesti le condizioni.
Viene praticato di norma entro la 22esima e la 24esima settimana di gestazione, una soglia strettamente legata al livello di sviluppo del feto e alla sua possibilità di sopravvivere autonomamente. Si effettua con la somministrazione di farmaci capaci di indurre la dilatazione della cervice e le contrazioni, provocando quello che in termini medici è definito travaglio abortivo.
Il feto viene prelevato, mentre la donna è preferibilmente anestetizzata anche per evitare traumi psicologici. Nella stragrande maggioranza dei casi il feto non sopravvive. Ma nella remota possibilità che lo faccia, il medico ha l’obbligo di rianimarlo e fare tutto il possibile per tenerlo in vita. Una pratica, questa, molto discussa e che comunque non porta alla sopravvivenza duratura del feto.
Alcuni diritti riservati.