Tutto inizia con delle piccole dimenticanze e sbadataggini, apparentemente simili a quelle che possono capitare a chiunque, ma ben più frequenti e singolari. Ad esempio oggetti riposti nei posti più impensabili, come le scarpe nel freezer, o la crema idratante utilizzata per lavarsi i denti.

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Poi le dimenticanze si accentuano e si può arrivare a perdere l’orientamento e ad avere difficoltà nel riconoscere i volti delle persone. Sono questi i primi segnali della malattia di Alzheimer, che oggi colpisce oltre 600 mila italiani con incidenza destinata a raddoppiare entro il 2020. A questi primi sintomi si possono sommare i disturbi del linguaggio – ad esempio l’impossibilità a pronunciare parole che si hanno in mente – fino a importanti cambiamenti dell’umore e del comportamento della persona. «Il soggetto tende a diventare apatico, depresso e irascibile, in risposta alla sua consapevolezza che qualcosa in lui sta cambiando» spiega Rossella Liperoti, geriatra presso l’Unità Valutativa Alzheimer del Policlinico Gemelli di Roma. «Questa sua percezione lo porta con il tempo a chiudersi in se stesso verso una progressiva condizione di isolamento sociale» prosegue l’esperta.

ASSISTENZA FIN DA SUBITO

Se le cause risultano in buona parte oscure, oggi sappiamo che il principale fattore di rischio della malattia di Alzheimer è rappresentato dall’età: secondo i dati ISTAT l’Alzheimer colpisce oltre il 10% delle persone tra i 65 e i 75 anni e la sua incidenza supera il 40% negli ultranovantenni. La necessità di assistenza cresce inoltre proporzionalmente con l’aggravarsi della malattia. «Sin dalla diagnosi, il paziente si trova in una condizione in cui il disturbo gli impedisce di svolgere le attività quotidiane in maniera autonoma, quindi necessita di una supervisione, anche se fisicamente può sembrare in buona salute» sottolinea Rossella Liperoti.

70 MILA EURO ALL’ANNO PER OGNI MALATO

Con il tempo l’assistenza diventa necessaria 24 ore su 24 e finisce per gravare fortemente sul piano economico e sociale delle famiglie, che nel nostro Paese si fanno quasi totalmente carico dei costi del malato. Una recente ricerca realizzata dal Censis con l’Aima (Associazione italiana malattia di Alzheimer) ha stimato che un paziente con malattia di Alzheimer comporta un costo medio annuo di circa 70 mila euro, quasi totalmente a carico della famiglia. Circa il 30% di questa quota è legata ai costi diretti, ad esempio la spesa per una badante, mentre il rimanente 70% è legato alla perdita di reddito familiare, ad esempio i figli costretti a dover rinunciare a parte del loro lavoro per assistere il padre o la madre.

LE POSSIBILITÀ PER LE FAMIGLIE

In questa difficile condizione, una delle opportunità che hanno le famiglie è fare richiesta - nel caso di invalidità totale del malato – della cosiddetta indennità di accompagnamento, che consiste in un assegno mensile di poco superiore ai 500 euro e indipendente dal reddito. Altrimenti si possono affidare alle strutture specifiche, come i centri diurni per i malati meno gravi o le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) per quelli più gravi, che tuttavia risentono di forti disparità tra le diverse regioni, con meno presenza al sud rispetto al centro-nord, dove non è raro imbattersi anche in servizi assistenziali innovativi come gli Alzheimer Caffè o i laboratori di stimolazione cognitiva.

NUOVE SPERANZE DAL PIANO NAZIONALE DEMENZE

Se il quadro non è dei più confortanti, qualcosa si sta tuttavia muovendo a livello internazionale per far fronte a quella che viene definita una «epidemia sanitaria e sociale». «L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha chiesto a ogni singolo Paese di dotarsi di un Piano Nazionale Demenze che sarà passato in revisione nel 2017» sottolinea Rossella Liperoti. Si tratta di un piano strategico che ha l’obiettivo di ridurre la diffusione delle demenze e il loro costo sociale, migliorando le cure e l’assistenza per i malati e sostenendo la ricerca scientifica. L’Italia si è già dotata di un proprio piano dal 2014 e, anche se i fondi sono insufficienti ed è ancora molta la strada da percorrere, si tratta di un debole primo passo verso un’assistenza migliore per i malati. «Nel mondo sta crescendo fortemente la sensibilità verso questa malattia e ciò potrebbe aprire nuove prospettive» conclude la dottoressa.

Nuove prospettive sul piano dell’assistenza ma anche per la ricerca farmacologica, a cui sono affidate le speranze di oltre 36 milioni di malati nel mondo.


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