Va a colmare un vuoto assoluto, permettendo così di alimentare almeno la fiammella della speranza: per i bambini che ne soffrono e per i loro genitori. Per l’atrofia muscolare spinale, la malattia neurodegenerativa resa celebre dal volto di Checco Zalone , c’è il primo farmaco: si chiama Nusinersen (Biogen) e rappresenta l’unico trattamento approvato dagli enti regolatori, tra cui l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), per il trattamento dell’atrofia muscolare.
L’opzione, a cui gli specialisti hanno fatto ricorso già da alcuni mesi in maniera compassionevole, sarà immediatamente disponibile anche nel nostro Paese, in cinque strutture ospedaliere: le tre sedi del Centro Clinico Nemo (a Milano, Roma e Messina), l’Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma e l’Istituto Gaslini di Genova. Ma l’obiettivo è quello di formare pediatri di base e specialisti per rendere più capillare la somministrazione sul territorio nazionale.
Nusinersen, nelle diverse sperimentazioni condotte fino a questo momento, «s’è rivelato in grado di ridurre la comparsa dei sintomi in bambini malati, ma ancora presintomatici», afferma Enrico Bertini, direttore dell’unità di malattie neuromuscolari e neurodegenerative del Bambin Gesù di Roma.
Atrofia muscolare spinale: di cosa si tratta?
L’atrofia muscolare spinale è una malattia genetica che colpisce le corna anteriori del midollo spinale: ovvero l’area in cui sono localizzati i neuroni che pongono il sistema nervoso centrale in collegamento con la muscolatura. Da qui la principale manifestazione clinica della malattia: caratterizzata dal progressivo indebolimento dell’apparato muscolare, a partire dai fasci più vicini al tronco. A provocarla - esistono diverse forme della Sma, che si differenziano per l’età di insorgenza e la gravità dei sintomi - è un difetto nel gene SMN1, che codifica per la sintesi di una proteina fondamentale per la sopravvivenza dei neuroni. La gravità è correlata con la quantità della proteina SMN: meno ce n’è, più avanzata è la forma dell’atrofia, con bambini incapaci di stare seduti senza ausili o di vivere oltre i due anni senza supporto respiratorio. Paralisi, difficoltà nella respirazione e nella deglutizione sono alcune delle complicanze che possono presentarsi nei pazienti più gravi.
La malattia si trasmette per via ereditaria autosomica recessiva: dunque entrambi i genitori devono presentare il difetto genetico (portatori sani) affinché i figli possano ereditarla. Partendo da questo presupposto, la probabilità che il gene venga trasmesso da entrambi al nascituro rendendolo malato è pari al venticinque per cento: dunque a un caso su quattro.
Cosa cambia con Nusinersen?
Nusinersen, testato finora su pazienti con meno di sei mesi affetti dalla forma più infausta della malattia e bambini colpiti dall’atrofia muscolare spinale di tipo 2, si somministra tramite una puntura lombare direttamente nel liquido cefalorachidiano attorno al midollo spinale, dove comincia il processo di degenerazione dei motoneuroni.
Quali sono gli scenari che si aprono con l’arrivo in Italia del nuovo farmaco? «Lo standard di cura cambierà - prosegue Bertini -. Bambini che prima erano classificati come affetti da atrofia muscolare spinale di tipo 1, che quindi non avrebbero mai potuto sedersi, riusciranno a stare seduti autonomamente e bambini che avremmo classificato come affetti dall’atrofia di tipo 2, che prima avrebbero raggiunto solo la posizione seduta, ora arriveranno a camminare».
Cambierà quindi lo scenario di severità clinica della malattia. In secondo luogo i pazienti e le loro famiglie, alla luce dei risultati clinici, avranno nuovi bisogni di assistenza e di cura, legati al mantenimento dei risultati acquisiti dal trattamento con nusinersen. «Oggi la quasi totalità dei pazienti affetti da atrofia di tipo 2 sviluppa la scoliosi, ora ci aspettiamo che il trattamento possa portare a ridurre la percentuale di incidenza del disturbo».
Anche Eugenio Mercuri, direttore dell’unità di neuropsichiatria infantile del policlinico Gemelli di Roma, è convinto che «la malattia non dovrebbe avere lo stesso volto nei prossimi anni: la possibilità di intervenire alla comparsa della malattia, o addirittura prima che la malattia si manifesti, potrebbe permettere di avere risultati ancora più soddisfacenti di quelli registrati durante la sperimentazione».
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