«Quando è incapace di difendersi con la spada, Roma può difendersi per mezzo della febbre».
Sono parole del cronista medievale Goffredo da Viterbo che, nel 1167, raccontava di come Roma, ogni anno d’estate, fosse piagata dalla malaria. Il pungiglione della zanzara non faceva distinzioni di censo o di nascita ed erano migliaia le vittime fra popolani, aristocratici, religiosi, guerrieri, cardinali e perfino papi.
Non la peste, non il colera, non l’Hiv: si ritiene che l’epidemia che abbia prodotto più vittime nella storia, in Europa, Asia e Africa sia stata proprio questa malattia trasmessa dalla zanzara anofele.
Sul legame tra terreni acquitrinosi e «mal’aria», già si scriveva in epoca romana con Marco Terenzio Varrone nel «De Re Rustica» e Terenzio nel «De Rerum Natura», che la ritenevano provocata dalle esalazioni dell’acqua stagnante delle paludi. Le gente semplicemente si ammalava di «febbri» e moriva. Tuttavia, per secoli non si individuò il vero responsabile, un protozoo parassita il cui vettore era il fastidioso insetto.
Caso volle che l’unico rimedio efficace, la prima vera e propria «medicina» della storia si trovasse da tutt’altra parte del globo e venisse scoperta dagli europei solo alla metà del ‘600. Fu la salvezza per milioni e milioni di persone.
A Roma, presso il Museo Storico Nazionale dell’Arte Sanitaria, contiguo all’ospedale di S. Spirito è conservata la reliquia più importante, a livello mondiale, di questa pietra miliare nella storia della medicina.
Camilla Cupelli
La macina ad acqua
E’ la macchina del chinino. Con le sue lesene e la cupola tondeggiante di un bel legno color mogano sembra il modello di un tempietto bramantesco. All’interno celava, invece, una macina speciale a suo tempo azionata dalla forza motrice dell’acqua della fontana di sinistra di Piazza S. Pietro, della cui acqua l’ospedale (il più antico del mondo) godeva il ricasco anche per la lavanderia. La preziosa corteccia dell’albero di China vi veniva ridotta in polvere e distribuita con larghezza ai ricoverati del Santo Spirito che in una sola volta ne acquistò per ben 25 monete d’oro.
L’apparecchio, tolto dal suo luogo, fu esposto alla Mostra Retrospettiva in Castel S. Angelo del 1911 e poi collocato tra i cimeli del Museo. La custodia artistica era stata realizzata su disegno di Giovan Battista Cipriani da Siena che, verso la fine del ‘700 disegnava e incideva a Roma vedute della città, disegni per architettura, strumenti d’ingegneria e perfino artistiche trappole per topi.
(La macchina del chinino conservata presso il Museo dell’Arte Sanitaria di Roma)
La scoperta degli indios
Si dice che il potere medicamentoso di questa corteccia fosse stato scoperto da un indio peruviano che, malarico, si era abbeverato in uno stagno dove erano caduti alcuni alberi di china che conferivano all’acqua un caratteristico sapore amarognolo.
Il segreto passò agli europei grazie a un soldato spagnolo che venne guarito dagli indigeni con la pianta officinale che, da quel momento, prese il nome di «arbol de la calentura», albero della febbre. Esiste poi una leggenda che riguarda la contessa di Chinchon, moglie del viceré spagnolo del Perù che sarebbe stata guarita allo stesso modo e che l’avrebbe importata in Europa tanto che Linneo, accettando la tradizione, battezzò la china col nome di «Cinchona officinalis». In realtà la nobildonna morì per altre cause prima di fare ritorno in patria; piuttosto, la Polvo de la Condesa, come era stata nel frattempo ribattezzata, fu introdotta in Spagna da un prete gesuita, Bernabé Cobo.
A Roma la nuova cura arrivò alla metà del Seicento
Nello Stato pontificio, la nuova cura si affacciò alla metà del Seicento grazie allo speziale del Collegio romano frate Pietro Paolo Puccierini che cominciò a preparare cortecce di china importate dal padre gesuita Bartolomeo Tafur e redasse la cosiddetta Schedula Romana, il primo «bugiardino» con istruzioni sui dosaggi e sulla corretta applicazione del chinino. Grande sponsor dell’introduzione della nuova medicina fu il generoso cardinale gesuita Juan de Lugo che, tra non poche resistenze, introdusse la cura presso i malati del S. Spirito distribuendola gratuitamente - e a sue spese - per vincere le opposizioni. C’è da dire che, così come i banchieri tedeschi Fugger avevano instaurato il monopolio sul guaiaco, la più diffusa medicina antiluetica dell’epoca, così in seguito, la Compagnia di Gesù farà per il commercio della china.
La crisi della medicina galenica
Il principio medicamentoso è un alcaloide contenuto nella corteccia dell’albero che uccide il plasmodio, parassita della malaria e determina il veloce sfebbramento.
Il medico Giorgio Baglivi vissuto fra il 600 e il 700
Nei paesi protestanti la «polvere dei gesuiti» veniva vista con enorme diffidenza e stentò ad attecchire. Vi erano poi delle contestazioni sulla sua efficacia a seconda delle zone. Come spiega il prof. Pierpaolo Visentin, segretario generale dell’Accademia di Arte Sanitaria: «Va ricordato che i grandi medici Baglivi e Lancisi, vissuti nello stesso periodo fra ‘600 e ‘700, ma avversari, rimasero in contrasto anche nel diverso apprezzamento sull’utilità della china. Dopotutto, il chinino metteva in crisi tutta la tradizione della medicina galenica, che si ispirava alla teoria dei “quattro umori”. Inoltre, non dava quegli evidenti effetti collaterali (sudorazione, salivazione, vomito etc.) che all’epoca venivano visti come indispensabili forme di evacuazione del male, indispensabili per la guarigione».
Il dibattito dei grandi medici
Baglivi, infatti, affermava: «Ciancino quanto vogliono i fautori della China. In altre regioni e in altre città essa è forse un buon rimedio. Qui a Roma lo trovo nocivo e non l’uso mai o raramente».
Lancisi, che invece si era trovato a curare direttamente gli abitanti della Città Leonina sia nelle epidemie malariche del 1695 e del 1716 verificatesi in seguito all’esondazione del Tevere, aveva avuto ottima prova dell’efficacia del medicamento, tanto da scriverne in termini quasi lirici: « Non può credersi quanto facilmente, con le pillole di China si riuscì a uccidere, come fossero altrettante saette d’Ercole, l’Idra feroce di questa palude Leonina».
E’ pur vero che la corteccia di china era abbastanza rara e veniva spesso “tagliata” con polvere di noci o corteccia di altri alberi come il cipresso, il pesco e il frassino. Il chinino ha poi alcuni effetti collaterali dannosi e un suo uso scriteriato poteva produrre disturbi visivi e auditivi anche permanenti.
Un medicinale strategico
In seguito allo sfruttamento intensivo delle piantagioni peruviane, la china stava per estinguersi. Si tentò di impiantarla in Spagna, ma senza successo. Fu nelle lontane colonie del sud est asiatico, specialmente a Giava, che invece la coltivazione dell’albero poté prosperare. Così, nell’800, inglesi e olandesi iniziarono a detenere in buona parte il commercio di questa pianta.
Le ricadute economiche della malaria erano importantissime. Basti pensare che il primo tentativo per lo scavo del canale di Panama fu un colossale fallimento proprio a causa della malattia che aveva falcidiato 22.000 operai. Il secondo tentativo, intrapreso nel 1904 dagli americani, fu invece un successo proprio per le politiche sanitarie antimalariche ottenute grazie al chinino.
La malaria italiana
In Italia, alla fine dell’Ottocento, circa un terzo del territorio era “infetto” e la metà della popolazione era a rischio contagio con circa 15 mila morti all’anno. Per questo, dal 1895, in tutte le tabaccherie del Regno d’Italia si vendeva a basso costo il Chinino di Stato. La svolta definitiva si verificò con la legge sulla Bonifica Integrale di Mussolini del 1928 e la conseguente opera di svuotamento idraulico delle terre acquitrinose e di recupero agricolo. In circa dieci anni furono bonificati oltre 6 milioni di ettari, i casi di malaria scesero dagli oltre 4 mila l’anno del 1922 a poche centinaia.
Bonifica dell’Agro pontino
Per capire cos’è stata questa malattia in Italia, vale la pena di rileggere un passo di «Malaria», una delle «Novelle rusticane» di Giovanni Verga: «È che la malaria v’entra nelle ossa col pane che mangiate, e se aprite bocca per parlare, mentre camminate lungo le strade soffocanti di polvere e di sole, e vi sentite mancar le ginocchia, o vi accasciate sul basto della mula che va all’ambio, colla testa bassa. Invano Lentini, e Francofonte, e Paternò, cercano di arrampicarsi come pecore sbrancate sulle prime colline che scappano dalla pianura, e si circondano di aranceti, di vigne, di orti sempre verdi; la malaria acchiappa gli abitanti per le vie spopolate, e li inchioda dinanzi agli usci delle case scalcinate dal sole, tremanti di febbre sotto il pastrano, e con tutte le coperte del letto sulle spalle».
La medicina poi «sintetizzata» in laboratorio per le truppe americane
Durante la Seconda guerra mondiale, con la necessità di proteggere le truppe americane nel Pacifico dalla malaria si riuscì a sintetizzare la medicina senza dover far ricorso alla pianta la cui coltivazione è rimasta soprattutto per lo sfruttamento delle sue proprietà aromatiche. Piccole, innocue quantità di china sono contenute, infatti, in vermouth, acqua tonica e bevande energizzanti conferendo loro un caratteristico gusto amarognolo.
Cartellone di propaganda per i soldati Usa
Tuttavia, dato che alcuni ceppi di malaria hanno sviluppato, nel tempo, delle resistenze ai farmaci sintetici, il chinino sta tornando alla ribalta proprio per la sua funzione medicamentosa originaria.
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scritto da La Stampa - Visite: 671