Era il giugno del 1969 quando William Wolff, assieme al collega Hiromi Shinya, praticò al Beth Israel Medical Center di Manhattan la prima colonscopia, perfezionando quella tecnica che oggi è riconosciuta come la più efficace non solo nella diagnosi precoce dei tumori del colon-retto, ma anche per la cura di malattie gravi e invalidanti come quelle infiammatorie intestinali: il Crohn e la rettocolite ulcerosa. Un’intuizione che ha segnato la storia della medicina e che nei giorni scorsi è stata celebrata con una mostra a Barcellona, dove si è tenuto il congresso europeo di gastroenterologia.
«La colonscopia ha cambiato la prassi diagnostica e di intervento per i tumori del colon-retto - spiega Elisabetta Buscarini, direttore dell’unità operativa complessa di gastroenterologia dell’ospedale di Crema e presidente della Federazione italiana delle Società Malattie dell’Apparato Digerente (Fismad) -. Nei tre percorsi di screening oncologico diffusi a livello nazionale, questo è l’unico realmente in grado di interrompere la storia naturale della malattia».
La «svolta» della colonscopia
La colonscopia (1.2 milioni gli esami effettuati ogni anno nel nostro Paese) vive oggi una fase di rinnovamento anche grazie all’uso di applicazioni sempre più avanzate come l’alta definizione, le colorazioni elettroniche (che consentono di caratterizzare subito le lesioni osservate) e la realtà aumentata (aiuta il medico a individuare i polipi). La loro rimozione rappresenta un’azione di prevenzione primaria, perché permette di ridurre l’incidenza del tumore del colon: di cui nel 2019 si ammaleranno 49mila italiani. La sua introduzione nella pratica clinica, assieme alle modifiche degli stili di vita, ha determinato negli anni un aumento della sopravvivenza dei pazienti affetti da quello che è il secondo tumore più frequente. «Grazie alla colonscopia, oggi siamo in grado di anticipare l’insorgenza dei tumori del colon-retto - afferma Cristiano Crosta, direttore della divisione di endoscopia dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano -. Occorre però ampliare l’adesione alle campagne di screening per limitare la mortalità legata a questa malattia e ridurre gli interventi chirurgici su tumori già invasivi».
Screening a macchia di leopardo
L’Italia, nell’ambito delle iniziative di screening oncologico, è uno dei Paesi più all’avanguardia del mondo. Ma le percentuali di adesione ai progetti di screening, nel nostro Paese, non sono omogenee. Anzi: il divario è significativo, al momento si va dal 70 per cento delle regioni del Nord a poco più del 50 per cento nel Mezzogiorno. Una forbice che determina una differenza nei tassi di sopravvivenza alla malattia: inferiori dell’8 per cento nelle regioni meridionali. Deficit organizzativi a livello locale, scarsa conoscenza dell’importanza della diagnosi precoce e timore dell’accertamento sono i principali motivi che frenano l’adesione agli screening. Ma la colonscopia, in questo caso, non è soltanto un'opportunità per fare diagnosi. «Con questo esame oggi possiamo rimuovere lesioni precancerose e contribuire direttamente a ridurre la mortalità determinata dal tumore del colon», aggiunge Enzo Masci, direttore della struttura complessa di endoscopia diagnostica e chirurgia endoscopica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.
Una mostra dedicata alla colonscopia
Proprio allo scopo di diffondere una corretta conoscenza delle prassi diagnostiche, a Barcellona è stata presentata una mostra (sostenuta dalla multinazionale Norgine) che ha avuto come protagonisti alcuni pazienti affetti da tumori del colon-retto, morbo di Crohn e altre malattie intestinali che, grazie alla colonscopia, hanno recuperato una qualità di vita eccellente. A comporre il percorso diversi quadri realizzati dall’artista Fabric Lenny che ha tratto ispirazione dalle storie raccolte da uomini e donne che hanno accettato di aderire al progetto per testimoniare l'importanza di sottoporsi (quando previsto) a un esame non particolarmente invasivo e salvavita.
Twitter @fabioditodaro