Provare a giocarsela ad armi pari contro il tumore al fegato, troppo spesso ancora difficile da curare, facendo leva su una categoria di farmaci utilizzati già per l’apparato digerente: ma per contenere l’acidità gastrica e il reflusso gastroesofageo. Sono gli antiacidi l’ultima frontiera della lotta all’epatocarcinoma.

Lo si deduce leggendo uno studio pubblicato sulla rivista «Oncoimmunology», che vede tra gli autori diversi ricercatori italiani: al lavoro all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e negli atenei di Firenze e Chieti. Gli scienziati hanno trovato conferma a quella che era un’ipotesi abbozzata già da qualche anno: gli inibitori di pompa protonica sono infatti in grado di interferire con il metabolismo del tumore. Una strategia che potrebbe rendere l’epatocarcinoma, che tra i tumori solidi è tra quelli che meno risponde alla chemioterapia, più facilmente aggredibile.

Il tumore del fegato vive in un ambiente acido

Si sa già da tempo, infatti, che l’epatocarcinoma matura e si sviluppa in un ambiente fortemente acido. Questo perché il tumore è riconoscibile da un ridotto afflusso di sangue e, dunque, di ossigeno. Ciò determina un accumulo di ioni idrogeno al suo interno e la successiva reazione di adattamento da parte delle neoplasia: consistente nella loro espulsione all’esterno, attraverso speciali «pompe» presenti sulla superficie delle cellule tumorali che permettono di mantenere all’interno del tumore condizioni biochimiche compatibili con la vita.

Da qui lo sviluppo di habitat con un pH estremamente basso, che i ricercatori hanno pensato di poter contrastare ricorrendo ai farmaci antiacidi, per l’appunto. Lavorando su campioni di tessuto di pazienti operati all’Istituto dei Tumori di Milano, nel reparto di chirurgia del distretto epato-bilio-pancreatico, gastrico e neuroendocrino diretto da Vincenzo Mazzaferro, i ricercatori hanno potuto verificare che questi canali che favoriscono l’espulsione degli ioni idrogeno sono in realtà presenti anche su altre cellule, oltre a quelle tumorali.

Si tratta di cellule immunosoppressori - di norma deputata ai processi di guarigione delle ferite - che, in questo caso, rappresentano un «alleato» del tumore. La loro attività è cruciale al fine della formazione di nuovi vasi sanguigni in grado di alimentare la malattia e di favorire il processo di metastatizzazione: ovvero di migrazione delle cellule tumorali anche in altri organi.

Colpire il microambiente tumorale

Mediante studi in vitro e su modelli di espianti tumorali, i ricercatori hanno osservato come l’uso di farmaci che bloccano la funzione dei regolatori del pH porti a morte le cellule tumorali, spenga simultaneamente la funzione delle cellule mieloidi immunosoppressorie e favorisca di conseguenza lo sviluppo delle difese immunitarie in chiave antitumorale.

«Per bloccare un tumore in modo efficace dobbiamo non solo colpire la cellula maligna, ma anche rendere l’ambiente in cui cresce più ostile possibile alla sua crescita - spiega Mazzaferro -. Ciò significa eliminare le condizioni che aiutano la sopravvivenza della cellula cancerosa, potenziando al tempo stesso le difese immunitarie contro il tumore». Da qui l’ipotesi che i farmaci che inibiscono la regolazione del pH possano rappresentare una promettente strategia terapeutica nei pazienti con epatocarcinoma, vista la capacità di interferire simultaneamente con le vie metaboliche dei tumori e con le popolazioni di cellule immunosoppressive associate.

Solo un caso su dieci è diagnosticato in fase precoce

In Italia, nel 2017, si sono registrate quasi tredicimila nuove diagnosi di tumore del fegato: con un rapporto di due a uno tra uomini e donne. Oltre il settanta per cento dei casi è riconducibile a fattori di rischio noti: quali l’infezione da virus dell’epatite C dell’epatite B e il consumo regolare ed eccessivo di alcolici. Attualmente la sopravvivenza si assesta attorno al venti per cento a cinque anni dalla diagnosi, ma risulta dimezzata un lustro più tardi. Il tumore può essere trattato con chirurgia, trapianto di fegato o terapie locali (ablazione, chemioembolizzazione) finché rimane localizzato al fegato, il problema è che soltanto il dieci per cento delle diagnosi avviene in fase precoce: quando cioè la malattia è allo stadio iniziale e risulta curabile per via chirurgica. Si tratta, come detto, di un tumore che risponde poco o nulla alla chemioterapia, mentre in fase avanzata si registrano risultati incoraggianti dall’uso di anticorpi monoclonali (nivolumab) e di inibitori della crescita tumorale (cabozantinib).

Twitter @fabioditodaro

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