In questi giorni vicini alla data del 10 ottobre, Giornata Mondiale della Salute Mentale, a 40 anni dalla promulgazione della legge 180, che avrebbe smontato l’idea del manicomio come istituzione totale e consegnato Franco Basaglia alla memoria dei posteri come il «liberatore» dei pazienti psichiatrici in Italia, può essere utile provare a capire in che modo la legge 180 riorganizzò la psichiatria territoriale, cosa resta e cosa è stato realmente superato del manicomio.
CHE COSA SI INTENDE PER LEGGE 180
La legge 180 promosse lo smantellamento dell’ospedale psichiatrico come istituzione unica in favore, in primo luogo, di una progressiva frammentazione dei servizi psichiatrici sui territorio, regolamentati, regione per regione, da norme e consuetudini simili fra loro, seppur con alcune diversità contestuali.
I servizi attuali sono reti di strutture tra di loro, in teoria, collegate, i cui nodi nevralgici sono i dipartimenti di salute mentale che decidono per il piano di cura da impostare con il singolo utente.
La rete di servizi attuale è la riformulazione territoriale e frammentata, dei servizi di salute mentale che prima della legge 180 erano catalizzati e isolati.
La promulgazione della legge 180 penetrò, scardinandole, alcune barriere concettuali che resero l’Italia un esempio europeo di promozione (almeno tentata) di buone prassi psichiatriche. Eppure, esistono forme di nuova cronicità.
Un’altra immagine dall’archivio fotografico del Centro di Documentazione sulla Psichiatria dell’ASLTO3 di Collegno
IL PERCORSO VERSO NUOVE FORME DI ASSISTENZA
Di recente alcuni articoli hanno promosso la sanità italiana a un livello molto alto (Lancet, probabilmente une delle più prestigiose testate al mondo, la classifica globalmente al 12mo posto in termini di rapporto efficienza/qualità dei servizi erogati/costi).
Per quanto riguarda la psichiatria, essa si distingue per un’impronta democratica e la scomparsa appunto di un certo tipo di istituzioni manicomiali.
Eppure, siamo lontani dal proporre soluzioni efficaci ed efficienti di gestione della malattia mentale, e questo per evidenti lacune in senso scientifico e ancora troppe incognite su come si origini realmente un problema psichiatrico. Mancano contenitori sociali che, su larga scala e per tempi allargati, prevedano una collocazione dei pazienti reale, abilitante, inclusiva e comunitaria.
DOVE VENGONO COLLOCATI OGGI I PAZIENTI CON DISTURBI MENTALI
Dove sono, quindi, oggi, i pazienti?
Ebbene, in parte sono a casa, tra gli affetti rimasti. Ma una parte di essi, esauritesi le possibilità famigliari (per invecchiamento dei genitori, o per difficoltà degli stessi di farsi carico di relazioni a volte gravose), viene inserita nel circuito della psichiatria residenziale territoriale, col rischio di avviarsi verso una nuova e dinamica forma di cronicità, curati per via quasi esclusivamente farmacologica e passando di struttura in struttura (più o meno protetta, più o meno alienante) il resto della loro vita.
IL PROGETTO IESA: PAZIENTI «ADOTTATI» IN FAMIGLIA
Sono poche le alternative ai circuiti canonici della psichiatria, che consentano un’applicazione reale del pensiero basagliano, nel tentativo di scongiurare il rischio di queste nuove forme di cronicità. Tra queste spicca lo IESA, inserimento eterofamiliare supportato di adulti, metodo presente in Italia come in molti altri paesi europei.
Il progetto IESA consiste nel favorire processi di integrazione di persone con disagio psichico all’interno di famiglie di volontari ospitanti (qui un approfondimento), eleggendo a luogo di cura le abitazioni di questi in alternativa alle comunità o ad altri istituti di ricovero.
In Italia tale metodo è stato diffuso dal dottor Gianfranco Aluffi direttore scientifico di Dymphna’s Family e responsabile del Servizio IESA dell’ASLTO3.
Dott. Aluffi, quali ritiene siano i vantaggi che un progetto come lo IESA reca al territorio?
«Un progetto come lo IESA che mira all’inclusione sociale di soggetti in difficoltà, valorizza le risorse presenti nel territorio, inducendo il contesto sociale a farsi carico delle sue parti più fragili. Va ad attivare le reti sociali già presenti, ne potenzia le capacità di integrazione, offrendo agli ospiti un contesto di vita non istituzionalizzato, non alienato dalla quotidianità, seguendo un principio equo, ecologico e solidale, sostenendo il territorio e i cittadini».
Cosa ha notato, nella sua esperienza, in termini di vantaggi ai pazienti?
«Numerose ricerche scientifiche mettono in luce i parametri di efficacia dello strumento IESA. Innanzitutto è evidente una riduzione dei giorni di ricovero per cause psichiatriche, favorito da un maggior contenimento affettivo e un supporto più puntuale e continuativo garantito dalle famiglie ospitanti con l’aiuto degli operatori dell’équipe IESA; questo è sicuramente un indicatore di benessere. Inoltre si registra un notevole aumento della qualità della vita per i pazienti che possono ri-acquisire un ruolo sociale e familiare nel nuovo contesto».
Quanto ci allontaniamo dagli esempi europei?
«La grande differenza sta nei numeri, poiché in Italia i progetti attivi sul territorio nazionale risultano ancora molto bassi rispetto a quelli delle esperienze francesi, inglesi e tedesche, a causa di carenze di tipo culturale. La sola esperienza del Regno unito totalizza oggi 14.000 progetti IESA attivi mentre in Italia siamo in totale intorno a quota 300. Le università e le istituzioni in genere dovrebbero farsi maggiormente carico della responsabilità di diffondere la cultura dello IESA anziché insistere su modelli di cura residenziale ancora legati a logiche massificatorie e separatorie basate quasi esclusivamente su interventi di tipo farmacologico».
Quali sono i vostri obiettivi operativi nel prossimo futuro?
«Continuare a svolgere accuratamente il nostro lavoro sul territorio dell’ASL TO3 e realizzare una corretta diffusione di questo tipo di strumento su tutto il territorio piemontese, così come previsto dalla recente normativa regionale. Abbiamo inoltre elaborato una proposta di legge nazionale sullo IESA che spero di vedere trasformata in legge entro la fine dell’attuale legislatura. Da qui in poi molto dipenderà dall’effettivo orientamento dei politici e degli amministratori a sostenere un modello di cure che mette al primo posto gli interessi del cittadino».