«Nuova pandemia». «Crescita inarrestabile». «Spaventosa impennata». Questo è il diabete. Quattro milioni gli italiani che ne soffrono e le proiezioni dell’International Diabetes Federation (IDF) prevedono una crescita dai 425 milioni di oggi fino a 552 milioni nel 2030 e a 642 milioni nel 2040.
Serve un intervento sinergico a tutti i livelli: sanità, educazione, trasporti, lavoro, affari sociali, architettura urbana. Agire sui fattori di rischio modificabili, come lo stile di vita, funziona. Ma sconfiggere i principali responsabili della malattia, obesità e sedentarietà e cattive abitudini, è una delle cose più difficili da fare. Serve il sostegno di tutti, non solo del proprio diabetologo.
E così la giornata mondiale del diabete che si celebra il 14 novembre è dedicata alla famiglia e il suo slogan sarà «Diabetes concerns every family» (il diabete riguarda ogni famiglia). Per l’occasione, la Società Italiana di Diabetologia lancia un concorso fotografico su Instagram, sotto il segno dell’hashtag #MoveAndTheCity. Chi meglio comunicherà le famiglie in movimento (regolamento e premi nel sito della SID www.siditalia.it).
«È giunto il momento di cambiare decisamente strategia» afferma il professor Francesco Purrello, presidente SID, che parla della necessità di «un vero e proprio movimento di opinione che porti nel tempo ad un radicale cambiamento culturale». A farsene carico devono essere tutti. In primo luogo, chi amministra le città. Gli ambienti urbani favoriscono le cattive abitudini e In Italia, il 37 per cento della popolazione risiede nelle 14 Città Metropolitane, dove si trovano il 52% dei pazienti diabetici.
Si deve puntare a nuovi modelli di governance che riducano lo sviluppo di malattie croniche, che compromettono la qualità della vita delle generazioni future. Accendere l’attenzione di tutti è uno degli obiettivi della Giornata, il cui segnale di via verrà dato dall’illuminazione in blu di ospedali e monumenti in numerose regioni italiane.
In occasione del 54esimo congresso dell’Associazione Europea per lo Studio del Diabete (Easd), svoltosi il mese scorso a Berlino, sono state presentate le nuove linee-guida sul trattamento del diabete di tipo 2 condivise dai diabetologi americani ADA e da quelli europei EASD. Raccomandano, dopo la metformina, di scegliere i farmaci anti-diabete più moderni e sicuri che non danno ipoglicemie e di personalizzare la terapia in base al rischio cardiovascolare del paziente, preferendo i farmaci innovativi con dimostrato effetto di protezione cardiovascolare e renale. Per il bene del paziente e anche al di là del prezzo del farmaco.
Nessuna sorpresa comunque per la diabetologia italiana, che aveva precorso i tempi, inserendo tali indicazioni in un position statement dell’autunno del 2017 e negli standard di cura SID-AMD dello scorso maggio. Ma «la media europea dell’utilizzo dei nuovi farmaci di protezione cardio-renale è del 15% e da noi non raggiunge il 5% - aveva dichiarato allora il presidente della SID Purrello - Oggi c’è un’enorme attenzione a contenere i costi delle terapie innovative, ma serve una visione di medio periodo. Ci auguriamo che questi farmaci vengano usati sempre di più».
I nuovi farmaci, innovativi e sicuri, come gli analoghi di Glp-1 e inibitori di Sgtl-2, vengono utilizzati in una percentuale bassissima del pazienti diabetici, rispettivamente il 3,7% e il 4% contro una media europea del 15%. A confermarlo sono gli Annali dell’Associazione medici diabetologi, presentati in occasione del IX Convegno Nazionale di Fondazione AMD, monitoraggio di oltre 455mila pazienti diabetici, il 91% con diabete di tipo 2, in cura in 222 centri di diabetologia (in Italia, sono in tutto 700): un «patrimonio ineguagliabile» di 120 pagine dati clinici di real life. Il protocollo di raccolta dei dati, approvato da 250 comitati etici, è parte di uno studio prospettico longitudinale della durata di dieci anni.
A spiegare questa bassa percentuale di pazienti che accedono ai farmaci innovativi e sicuri, c’è l’inerzia terapeutica ma anche «vincoli amministrativi che contribuiscono a questa situazione, che è una partita ancora aperta» dice Valeria Manicardi, coordinatrice del gruppo Annali. Poi la famosa sostenibilità: «Se li somministrassimo a tutti i pazienti diabetici già andati incontro a un evento cardiovascolare, il 20% del totale, il costo sarebbe elevatissimo» commenta il vicepresidente AMD Paolo Di Bartolo. Ma toccherà organizzarsi, le linee guida parlano chiaro e il rischio di sviluppare malattia cardiovascolare è di tre-quattro volte più elevato nei pazienti diabetici: il risparmio verrebbe dalla riduzione di questi eventi gravi e conseguenti invalidità.
Dagli Annali, emerge che migliora l’assistenza ai diabetici: si monitora di più la malattia e si presta maggiore attenzione ai fattori di rischio cardiovascolare, mentre aumentano i pazienti che tengono sotto controllo i valori di emoglobina glicata, colesterolo e pressione (ma solo il 16% tutti e tre contemporaneamente). La qualità di cure complessivamente erogate, misurata attraverso un indicatore predittivo del rischio di sviluppare le complicanze micro e macrovascolari chiamato score q, è “adeguata” per il 50% dei pazienti. Ma, allo stesso tempo, ci sono obiettivi non ancora raggiunti: sono obesi ancora il 40% dei pazienti con diabete di tipo 2, e il 17% fuma e solo una minoranza di pazienti ha accesso ai farmaci innovativi.
Gli Annali sono «una misurazione del «funzionamento di un’intera categoria professionale per evidenziare i gap esistenti tra le linee guida e la pratica clinica» ha detto Nicoletta Musacchio, presidente di AMD. Quantificare è, infatti, condizione necessaria per migliorare. Il database consente, inoltre, consultazioni “locali”: ogni singolo centro potrà così autovalutarsi rispetto ai risultati della media nazionale e anche «rispetto ai centri top, quelli dalle migliori prestazioni su tutti gli indicatori» spiega Antonio Nicolucci, Direttore CORESEARCH Center for Outcomes Research and Clinical Epidemiology, tanto che «ci auguriamo gli Annali possano guidare futuri interventi riorganizzativi istituzionali».
Al Convegno di AMD, si è parlato anche di big data e intelligenza artificiale (IA), in particolare delle metodiche capaci di estrarre nuova conoscenza dai dati già a disposizione. Il position statement, pubblicato sulla rivista di AMD, ne sottolinea il potenziale per la diabetologia. Ma su un punto è chiaro: l’intelligenza umana che lavora con l’IA, citando il teorico della medicina di Stanford Abraham Verghese, «è un clinico bene informato, empatico, dotato di rigorosi strumenti predittivi e di guida delle scelte e alleggerito dal lavoro ingrato e ripetitivo».