Tra tutti, lo consideriamo il senso più «scontato». Qualcosa che ci viene donato con la vita e che quasi sempre va via con essa. Che si possa perdere la vista - grazie alla quale ci muoviamo, leggiamo, apprendiamo, entriamo in empatia con una persona - è un qualcosa di cui non ci preoccupiamo quasi mai. Motivo per cui il pensiero di nascere addirittura senza o quasi è l’ultimo ad albergare nella mente dei futuri genitori. Accanto alle cause di cecità nel bambino, oltre a malattie dell’occhio quali la cataratta e il glaucoma, esistono altri deficit più subdoli, dovuti a lesioni cerebrali che colpiscono le aree visive. Tra questi è inclusa l’emianopsia, la perdita di visione all’interno di una metà del campo visivo.

Come «vede» il cervello
Quando i nostri occhi catturano un’immagine, la retina trasforma lo stimolo luminoso in un impulso nervoso. Questo è subito trasportato dal nervo ottico fino alla corteccia visiva primaria, dove le informazioni vengono elaborate. Questa zona è fondamentale, perché soltanto quando lo stimolo arriva qui possiamo dire di aver visto qualcosa: un oggetto, un pericolo, una persona. Ma per quanto importante, la corteccia visiva primaria è una delle oltre cinquanta aree deputate all’elaborazione delle immagini. «Abbiamo prove sperimentali che dimostrano che il cervello mantiene una fortissima plasticità: in caso di bisogno, può riassegnare l’elaborazione delle immagini ad altre aree corticali», afferma Francesca Tinelli, neuropsichiatra infantile dell’Irccs Fondazione Stella Maris di Pisa. La plasticità cerebrale è massima nei primissimi mesi di vita. A provarlo è la capacità che alcuni bambini hanno - nonostante un difetto del campo visivo determinato da una lesione congenita vascolare, traumatica, infettiva o tumorale - di «riorganizzare» la propria funzione visiva. I più piccoli, in presenza di un danno alla corteccia, sono in grado di «vedere». Possono non saper descrivere i dettagli di un oggetto, ma riconoscere un pericolo. Questo perché, nel loro cervello, si registra una percezione inconscia - il bambino vede, ma non sa di vedere: il fenomeno è noto come «visione cieca» - dovuta alla capacità delle aree visive intatte (quelle extrastriate o quelle dell’emisfero sano)o di compensare il deficit.

La riabilitazione visiva
Il deficit di campo visivo è meno grave se la lesione è congenita. In questi casi, il bambino deve essere «allenato» nei primi mesi di vita a spostare l'attenzione verso il campo visivo cieco. Al resto penserà la plasticità cerebrale. Ad aiutare il piccolo paziente si suppone che sia una struttura chiamata collicolo superiore. Al suo interno si trovano dei neuroni «speciali» – detti multisensoriali – normalmente in grado di rispondere a stimoli doppi (per esempio visivo ed acustico). In caso di necessità, però, possono «reagire» anche soltanto a un input visivo. Attraverso queste cellule, avviene il passaggio delle informazioni recepite dal nervo ottico verso le altre aree cerebrali deputate all’elaborazione delle immagini. Partendo da questo assunto, «stiamo cercando di capire se, con un training specifico, sia possibile recuperare la stessa plasticità nei bambini con una lesione acquisita», aggiunge Tinelli.

La loro situazione è infatti paragonabile a quella di un adulto con deficit di campo visivo - per esempio a seguito di un ictus - che finisce per sopperire all’incapacità di riconoscere un oggetto o una persona proveniente da lato «buio» inclinando e roteando la testa. Ma anche nei confronti di questi bambini si stanno facendo passi in avanti nella riabilitazione. Il principio su cui si basa la sperimentazione in corso nella città toscana è un allenamento intensivo che agisce attraverso la stimolazione di strutture subcorticali intatte. Il piccolo paziente viene «sollecitato» con un suono e un fascio di luce provenienti dal lato danneggiato. Questi input vengono inviati secondo sequenze e frequenze personalizzate che, alla fine, portano il suono e la luce a manifestarsi nello stesso istante. L’obbiettivo è velocizzare la reazione del bambino, che durante l’esercizio imparerà a girare gli occhi (e non il capo) verso la fonte di emissione.

Training a domicilio

Per «allenarli», a Pisa si sta testando un percorso di teleriabilitazione della durata di due o tre settimane, con un allenamento quotidiano di due ore. Il bambino viene posto di fronte a un pannello - che è l’elemento portante del percorso di riabilitazione - contenente led luminosi, piccoli altoparlanti in grado di emettere suoni e una telecamera per registrare la posizione degli occhi e del capo. Tramite un pulsante, è il paziente ad «avviare» gli stimoli. Le sue risposte vengono registrate e inviate direttamente all’esperto che segue il training, che può così leggerle direttamente sul suo computer. Il trattamento è in fase di sperimentazione, ma le evidenze preliminari raccolte su otto bambini (tutti con età superiore a 8 anni) sono incoraggianti. Tra i vantaggi, la possibilità di effettuarlo anche a distanza dal momento della comparsa della lesione.

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