L’obesità, la cui dilagante crescita preoccupa tutte le autorità dall’Oms in giù, sta superando il fumo come principale causa di morte prematura, è responsabile di oltre il 70% dei casi di diabete ed è associata ad un numero crescente di tumori, tra cui quello alla mammella.

Se da una parte è chiaro il legame tra obesità, diabete di tipo 2 e cancro alla mammella, dall’altra parte non si è ancora arrivati alla chiara comprensione dei meccanismi alla base di questa evidenza clinica. Che ora, per la prima volta, è stata confermata a livello di espressione genica.

La scoperta è stata fatta da gruppo di ricercatori del Centro della Complessità e dei Biosistemi (CC&B) dell’Università di Milano, i quali sono arrivati all’identificazione di una sorta di firma genetica comune a obesità, diabete di tipo 2 e cancro alla mammella.

Si tratta di 38 geni che sono espressi in maniera diversa negli adipociti provenienti da soggetti obesi, rispetto a quelli dei non obesi. Una sorta di firma genetica che sembra caratterizzare in maniera specifica la condizione di obesità. I 38 geni individuati sono soprattutto associati a processi di infiammazione e risposta immunitaria, e a complicazioni note dell’obesità come il diabete di tipo 2 e l’infertilità. Essi, inoltre, sono deregolati in maniera simile nel caso di cancro alla mammella, il che sembra quindi confermare l’associazione fra questo tipo di tumore e l’obesità. Alcuni di questi geni potrebbero quindi rappresentare degli interessanti marcatori biologici, utili non solo per ulteriori ricerche su questi temi, ma, eventualmente, anche per possibili scopi diagnostici.

Questo risultato, descritto sulle pagine della rivista NPJ Systems Biology and Applications, è stato reso possibile da un innovativo approccio ai big data che ha permesso di superare le difficoltà fin qui riscontrate nell’analisi dei dati di trascrittomica, cioè di quali geni vengono attivati o repressi, di molti individui diversi. In altre parole, con il nuovo approccio statistico si vuole risolvere un problema, chiamato «effetto batch», che impedisce di confrontare i dati di campioni biologici diversi. Un problema che i bioinformatici conoscono bene e che stanno cercando di risolvere in molti modi, per analizzare quanti più dati possibili, utilizzando set di dati diversi come se provenissero tutti dallo stesso insieme iniziale. In questo caso, gli autori hanno fatto ricorso a un approccio basato sulla combinazione di due diverse tecniche chiamate decomposizione ai valori singolari e analisi di deregolazione dei pathway.

«Questa strategia di analisi – spiega la responsabile Caterina La Porta, membro del CC&B e professoressa di patologia generale al Dipartimento di scienze e politiche ambientali dell’Università di Milano - potrebbe venir utilizzata anche per studiare altre patologie, consentendo di sfruttare con maggior accuratezza l’enorme quantità di dati accumulati nella letteratura biomedicale».


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