Raccontare la propria esperienza per dare coraggio agli altri, soprattutto ai bambini che, come lui, affrontano una vita con l’emofilia. È questa la principale ragione che ha spinto Salvo Anzaldi, giornalista torinese con una diagnosi arrivata molto tardi, solo all’età di otto anni e mezzo, di correre la maratona di New York.

Il libro autobiografico «Nato per non correre» (Casa Sirio editore) vuole testimoniare che si può fare, si può decidere di avere una marcia in più e fare anche quanto si credeva impossibile. Come correre 42,195 km con l’emofilia e una protesi di titanio al ginocchio, cosa che lo fa sentire non certo un eroe, dice, ma un privilegiato. Con il dovere di raccontare.

All’impresa sportiva di Salvo e di altri quattro aspiranti podisti con emofilia - Alberto, Gianluca, Roberto e Simone - è stato dedicato anche un documentario intitolato «Traguardi», trasmesso durante la maratona Telethon sulla Rai del 2015.

L’emofilia è una malattia genetica che in Italia colpisce 5mila persone, di cui 2mila in forma grave, caratterizzata da un’alterazione del processo della coagulazione che può comportare sanguinamenti incontrollati spontanei o causati da traumi anche lievi. È una malattia ereditaria trasmessa dalla madre ai figli maschi e influisce sulla quotidianità a causa della necessità di cure costanti. Oggi molto è cambiato rispetto agli anni Settanta e Ottanta riguardo questa malattia.

Nato per non correre è una narrazione ricca di spunti di riflessione, che contiene tutti gli elementi del vissuto dei pazienti, quale che sia la malattia: la mancanza di consapevolezza altrui, gli errori diagnostici e terapeutici, la goffaggine nel comunicare la malattia. Ci sono i medici che non ascoltano, come quelli del pronto soccorso, dove come scrive Anzaldi, «la sala è piena e non c’è tempo per chiacchierare o per ascoltare” e che non prestano mai attenzione alle parole della mamma di Salvo che prova a raccontare del facile sanguinamento degli altri uomini della sua famiglia. Ci sono i medici sempre di corsa che ignorano l’importanza della comunicazione medico-paziente e che come “mammiferi rari, sono difficili da avvistare e pressocché impossibili da catturare» tanto che ottenerne «l’attenzione per più di pochi secondi è impresa per pochi».

Ma ci sono anche gli specialisti che sanno fare il loro lavoro e stanno ad ascoltare, «persone empatiche e disponibili» tanto che «il loro esempio rende tutto il personale di reparto della stessa, squisita, pasta».

È grazie a questi professionisti se si arriverà a dare un nome alla causa dei continui malanni di Salvo. C’è il supporto della famiglia, di una mamma che non mette il figlio sotto una capanna di vetro; ci sono i colleghi che non sanno, perché l’emofilia non si vede e sentirsi uguali agli altri è importante. Ma c’è soprattutto la vita quotidiana di un bambino che nonostante tutto va a scuola, ama il calcio, lo sport e Bruce Spristeen, che lo accompagnerà sempre, finanche nella sua grande avventura newyorkese.

L’impresa ha avuto il sostegno della Fondazione Paracelso, nata nel 2004 con la costituzione di un fondo di solidarietà per tutti gli emofilici che negli anni 80 avevano contratto l’hiv a causa degli emoderivati infetti. Si è svolto anche con la collaborazione con la Fondazione Telethon che, con l’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget), è impegnata nella ricerca di nuove terapie geniche per offrire una cura definitiva attraverso la correzione del difetto genetico responsabile della malattia. I risultati preclinici ottenuti finora sono positivi tanto che il prossimo obiettivo è quello di avviare uno studio clinico per valutarne sicurezza ed efficacia nei pazienti. Perché, come diceva Bertold Brecht, «se combatti puoi perdere, se non combatti hai già perso».