I vaccini sono una delle più importanti scoperte del millennio. Hanno salvato milioni di vite e il loro impatto sulla salute pubblica è secondo solo all’accesso all’acqua potabile. Negli ultimi anni sono più efficaci, accessibili e gratuiti. Nonostante questo la copertura dei vaccini in Italia, e nel mondo occidentale, è in calo. Sono nate preoccupazioni profonde e in molti associano le vaccinazioni a effetti negativi, tra cui l’autismo, e la scienza non riesce a tradurre in fiducia le prove a suo favore. I rischi di non vaccinarsi, però, sono alti e colpiscono tutti.
Prevenire è meglio che curare
Diffusi già da inizio Novecento, hanno eliminato o ridotto al minimo malattie come la difterite, la pertosse, il morbillo, il tetano, la meningite B. Grazie ai vaccini, il vaiolo è stata la prima malattia totalmente debellata sulla Terra.
La ricerca medica li ha ulteriormente migliorati negli ultimi decenni: le iniezioni sono più sicure, ogni anno vengono sperimentate nuove cure per nuove malattie, e sono maggiormente diffusi nei Paesi in via di sviluppo. Il loro è semplice: viene somministrata una dose di virus, parassita o batterio in forma attenuata, così che il corpo attivi il sistema immunitario e sviluppi gli anticorpi necessari a riconoscere e difendersi dall’eventuale contatto con la malattia vera. Ai tempi della loro scoperta, nel Settecento, veniva preso il virus del vaiolo dai bovini per iniettarlo nei bambini e proteggerli dal vaiolo umano. Il metodo è stato affinato: ora il vaccino è creato in laboratorio e sono stati ridotti il carico virale e gli eccipienti presenti. Nel 2017 la somma di tutti i vaccini obbligatori contiene meno “ingredienti” del singolo vaccino del vaiolo diffuso a inizio Novecento.
Il ritorno delle epidemie
Nonostante il loro successo, oggi la copertura in Italia e nel mondo occidentale è in calo. Una malattia come il morbillo, in molti Paesi dichiarato debellato, sta ricomparendo. Nel 2015 in California, in due parchi tematici della Disney, è scoppiata un’epidemia che ha colpito quasi 100 persone, soprattutto bambini. È riemerso anche in alcuni Paesi europei, ma non ha fermato le proteste di molti genitori e attivisti che si schierano contro le vaccinazioni preventive. Anche in Italia sempre più genitori preferiscono non vaccinare il proprio bambino, oppure non sottoporlo a tutti i vaccini obbligatori o ancora distribuire diversamente le somministrazioni e i richiami nel tempo. Alcune regioni, come il Veneto, hanno tolto l’obbligatorietà dei vaccini nel 2007 (per poi introdurre una forma di raccomandazione). I recenti piani del governo per rendere gratuito un più ampio spettro di somministrazioni continua a non convincere molte nicchie e comunità: le vaccinazioni non sono più considerate uno strumento fondamentale, accolto come un miracolo, ma una potenziale minaccia.
Paura di una puntura
Una volta si vaccinava il proprio figlio perché erano note le gravi conseguenze di malattie come la polio e pertosse. Oggi la percezione è cambiata. Genitori, attivisti, opinionisti, politici anti-vaccini hanno più paura delle siringa che della malattia: sostengono che siano una cura innaturale, non necessaria, piena di rischi e controindicazioni. C’è uno scetticismo strisciante nei confronti dei medici, delle istituzioni e delle case farmaceutiche che fa sì che non si accetti più una procedura standardizzata che provoca quasi nessun effetto indesiderato. La paura ha preso voce negli ultimi anni, ma arriva da lontano e riverbera da decenni. Nel dopoguerra, durante la prima campagna di vaccinazione di massa degli Stati Uniti, la produzione di vaccini fu appaltata a cinque case farmaceutiche: una di queste, i laboratori Cutter produssero vaccini contenenti il virus vivo, invece che inattivo, della polio provocando 10 morti e migliaia di paralisi: uno dei più grandi disastri farmaceutici della storia. Oggi, però, per produrre un vaccino sono necessari almeno dieci anni, centinaia di migliaia di test e un processo di controllo accurato e rigidissimo. Per una casa farmaceutica i vaccini non sono una fonte di enorme guadagno: valgono in media solo il 3% delle entrate delle aziende.
L’autismo non c’entra
Una delle più grandi paure legate ai vaccini è totalmente infondata. Il vaccino come causa dell’autismo è una tesi avanzata da un medico britannico, Andrew Wakefield nel 1998: ora è stato radiato dall’ordine, il suo studio ritirato da The Lancet, la rivista scientifica che l’aveva pubblicato, ed è stata provata la sua malafede nel produrre la ricerca. I dodici pazienti che lui aveva studiato non hanno sviluppato l’autismo.
Nonostante il discredito di Wakefield, le sue idee fanno ancora presa. Non hanno basi scientifiche, e i test sono stati effettuati da diversi istituti su milioni di bambini senza mai trovare una correlazione con l’autismo. Per molti molti genitori, però, sono il modo migliore per spiegare una diagnosi, quella dell’autismo, che la medicina non ha ancora del tutto compreso. Perché tra gli 1 e 3 anni (coincidentamente il periodo dei primi vaccini e dei richiami), spesso in maniera improvvisa, alcuni bambini sviluppano disturbi comportamentale e cognitivi? Da cosa deriva? Dalla genetica o da fattori esterni? Quali? Il modo più semplice per una madre o un padre è trovare correlazione di causa-effetto con degli eventi precisi: il momento del vaccino rimane in memoria più degli altri. Le loro storie, nonostante non siano dei set di dati scientifici, sono la loro convinzione.
Come dice un genitore italiano, che preferisce non essere citato: “la mia prova è mio figlio, e gli hanno diagnosticato l’autismo dopo l’uso spropositato di vaccini”. Se la diagnosi è vera, non è vero che il vaccino è la causa. La scienza, però, non può provare una negazione.
Incompatibilità di linguaggio
Gli aneddoti e le storie, invece, possono provare tutto. Perché agiscono su un piano non razionale e non hanno bisogno di metodo: spesso sono molto più convincenti e più accessibili, soprattutto grazie a internet. La scienza, il suo linguaggio, la sua difficoltà a spiegarsi possono fare poco di fronte agli attacchi. I motori di ricerca hanno reso meno importanti i pareri medici e il tempo medio passato con i pediatri è diminuito negli anni per il sovraffolamento degli studi e ora è minore ai trenta minuti. Spesso è incentrato sulla cura ed è difficile instaurare una discussione complessa sull’importanza della prevenzione.
E quando un medico parla, dovendo attenersi al linguaggio della sua materia, può interpretare ma non può tradurre. Per un medico l’affidabilità di un medicinale esiste solo per relazione: è più o meno sicuro in base a “ai dati che disponiamo al momento”. Noi siamo costretti a tradurre in un linguaggio e in un mondo dove la sicurezza deve essere assoluta.
Ma rifiutare i vaccini, per motivi sbagliati e infondati, significa mettere a rischio non solo chi decide di non vaccinarsi e i loro figli. L’immunità di gregge, ovvero la copertura di almeno il 90-95% della popolazione, è fondamentale per evitare le epidemie che possono colpire soprattutto i neonati. I vaccini vengono fatti a un anno dalla nascita: prima della vaccinazione, prima di quel momento i bambini sono esposti e la loro salute molto fragile: è necessario che quante più persone siano vaccinate per evitare il diffondersi della patologia.
Non è un tema controverso
“La scienza non è democratica” sosteneva qualche mese fa Roberto Burioni, autore del libro “Il vaccino non è un opinione”. Lo deve essere però la discussione e l’approccio della comunità medica e scientifica, per colmare un vuoto di comunicazione che al momento viene riempito dalle paure e da chi, in buona o cattiva fede le alimenta. Il consenso verso cui ci portano le prove scientifiche non porta in automatico alla fiducia delle persone, così come una connessione a internet non ci rende esperti. Le informazioni devono poter essere accessibili e convertite. Secondo uno studio, un futuro genitore che si interessa di vaccini e li analizza prima della nascita del proprio figlio, è 8 volte più propenso a sottoporlo a tutte le vaccinazioni. Perché ne comprende meglio l’importanza, si fida di più e ha meno paura di una puntura.
Hanno collaborato alla raccolta dei dati: Francesca Barbalace, Laura Barbiera, Davide Fortuna, Massimo Gandola, Luca della Maddalena, Carlo Munaretto, Francesca Neri della classe Digital I della Scuola Holden
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