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I racconti dei pazienti, in questo senso, sono tutti uguali. «Quando ho saputo di avere un cancro, è come si fosse abbattuto uno tsunami nel giardino della mia vita», è quanto riferiscono le persone che scoprono di avere un tumore: indipendentemente dalla sua localizzazione.

Nulla di strano. Sapere di avere una malattia ancora connotata da un forte stigma, non aiuta chi ne soffre ad affrontarla con la necessaria forza d’animo. Almeno non nelle prime fasi, perché poi subentra la fase di documentazione e conoscenza e oggi, in Italia, il cancro si supera più che nel resto d’Europa. Da qui l’ipotesi. E se alcuni tumori smettessimo di chiamarli tali, visto il basso rischio e i crescenti tassi di sopravvivenza?

Oggi si celebra la giornata mondiale contro il cancro

L’ipotesi, non per la prima volta, viene lanciata attraverso le colonne del «British Medical Journal» e riguarda fondamentalmente tre tipologie di tumori: quelli della prostata a basso rischio, i carcinomi papillari della tiroide e le neoplasie duttali in situ della mammella.

In tutti e tre i casi, i tassi di sopravvivenza superano il 90 per cento. Ciò vuol dire che, grazie anche alla diagnosi precoce, continuare a vivere dopo una simile diagnosi è molto più che una speranza. Eppure, ancora oggi, queste malattie rientrano nella categoria dei tumori. Un’appartenenza che evoca comunque paura, al momento della diagnosi.

L’idea del cancro è quella di una malattia che cresce, si diffonde, ci prende per mano e ci conduce verso la morte. Ma non è sempre così, anzi: quasi mai, nei casi sopra descritti. Da qui l’ipotesi, lanciata alla vigilia della giornata mondiale contro il cancro, in programma il 4 febbraio: perché non dare un altro appellativo a queste diagnosi, ovviamente non prima di aver completato l’intero iter diagnostico?

Quando si potrebbe non parlare di cancro?

Il tema è stato al centro di un confronto di idee tra due esperti, sulle colonne di una delle riviste scientifiche più importanti al mondo. Secondo Laura J. Esserman, direttrice del Carol Franc Buck Breast Care Center di San Francisco, bisognerebbe smettere di usare la parola cancro per i tumori a bassissimo rischio. Contraria invece l’opinione di Murali Varma, anatomopatologo dell’University Hospital of Wales di Cardiff nel Regno Unito, secondo cui non è il caso di cambiare lo scenario.

Vediamo le loro ragioni. A detta di Esserman, sotto un unico cappello, al momento, rientrano malattie dagli esiti talvolta molto distanti. Lo stesso termine viene usato per descrivere tumori che hanno una probabilità di progredire in vent’anni inferiore al cinque per cento e altri con il 75 per cento di probabilità di diffondersi nell’organismo in solamente uno o due anni.

Giusto per fare qualche esempio: nella prima categoria rientrano le neoplasie sopracitate, nell’altra i tumori che possono colpire il pancreas, il polmone e, in alcuni casi, il cervello. Questa ampia eterogeneità, dovrebbe portare a considerare l’ipotesi di non fare di tutta l’erba un fascio.

Esserman cita come esempio i carcinomi duttali in situ della mammella , pari a un quarto dei casi oggi scoperti attraverso la mammografia. Secondo l’esperta, si potrebbe parlare di «lesioni indolenti di origine epiteliale». Una scelta che, a suo avviso, non altererebbe la strategia terapeutica, ma al contempo placherebbe le ansie di una donna che invece esplodono di fronte alla parola cancro.

Meglio puntare sull’educazione

Più cauto è invece l’approccio di Varma. Secondo l’anatomopatologo, come tale abituato a studiare i tumori in laboratorio, per poi restituire una corretta diagnosi, «è impossibile conoscere in anticipo con certezza il decorso naturale di qualunque tumore a basso rischio».

Inoltre i termini alternativi rischiano di confondere ancora di più i pazienti. Secondo l’esperto, piuttosto, occorrerebbe lavorare sul fronte dell’educazione. Ipotesi, quest’ultima, che durante l’estate scorsa aveva messo d’accordo anche gli esperti italiani.

Anche in quel caso, il dibattito era stato aperto da un lavoro pubblicato sul «British Medical Journal» . Era toccato a Stefania Gori, direttore dell’unità di oncologia medica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona) e presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom), ricordare «il lavoro fatto per sdoganare termini quali tumori e cancro, malattie peraltro spesso molto diverse tra loro.

Un eventuale cambio nella nomenclatura andrebbe stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Per adesso, meglio continuare a mettere i pazienti nelle condizioni ideali per essere curati, nella piena consapevolezza del percorso terapeutico da affrontare».

Un messaggio che mira ad arrivare in primis ai medici, per poi fare in modo che i benefici raggiungano chi è alle prese con il cancro. Varma è infatti convinto che la sensibilizzazione, oltre a migliorare la prevenzione e l’adesione agli screening, aiuterebbe i pazienti anche a dare il giusto peso a una diagnosi. Il tutto senza fare confusione. E, soprattutto, senza alterare le probabilità di vivere anche oltre la malattia.

Twitter @fabioditodaro