Tempo fa abbiamo ricevuto questa lettera da una nostra abbonata. Volentieri la pubblichiamo. E’ il drammatico racconto del parto di sua figlia, avvenuto tramite induzione. La signora ha chiarito che la sua non voleva essere una denuncia, ma soltanto un modo per far conoscere ad altre donne che devono sottoporsi a questa procedura, le possibili difficoltà del percorso.
A voce ci ha spiegato che il suo caso non è ovviamente da considerarsi universale, tant’è che la vicina di letto della figlia, ha intrapreso lo stesso iter e in sole cinque ore è stata ricoverata, entrata in travaglio e andata e tornata dalla sala parto, dove ha messo al mondo, in pochi minuti, un bambinone di 4 chili.
Parto indotto: quando si fa e quali rischi comporta
angela nanniLA LUNGA NOTTE DI LAURA
Probabilmente nel mio cervello non ha ancora trovato il suo spazio di sedimentazione, ma sono certa che nel giro di qualche giorno, quando la stanchezza fisica ed emotiva si saranno affievolite, l’orribile esperienza che ho vissuto verrà registrata dentro di me sotto la voce «trauma».
Invento un nome per me stessa, Valeria. Ho 54 anni e sono la mamma di una bellissima ragazza di 23 che ha appena dato alla luce una bambina. Ragazza forte mia figlia, decisamente ribelle e molto agguerrita, di conseguenza anche tosta, nel fisico e nel carattere. Eppure, quel che ha dovuto subire la notte in cui la sua creatura è venuta al mondo, l’ha messa a dura prova e ha steso al tappeto, almeno per qualche ora, anche la sottoscritta che le è stata vicino e ha tentato di aiutarla facendo quel poco che poteva.
Eravamo al termine di una gravidanza assolutamente perfetta, senza disturbi di sorta, a parte le consuete nausee del primo periodo. Molti controlli durante i 9 mesi per monitorare che tutto procedesse per il meglio. Esami, ecografie, visite ginecologiche. Bimba e mamma perfette.
In base all’ultimo ciclo mestruale dichiarato, il termine della gestazione era stato calcolato per il 12 del mese. Ma né il 12 e neppure nei giorni immediatamente successivi, accade niente. Nuovo consulto con lo specialista e ri-datazione in base ai parametri morfologici della nascitura, al 19.
Niente! 20, 21, 22… Tutto fermo. Decidiamo allora di interpellare l’ospedale dove mia figlia aveva deciso di partorire e del quale non farò mai il nome poiché questo mio racconto non vuole innescare polemiche, ma soltanto essere una testimonianza concreta per altre donne che dovessero scegliere di intraprendere un certo percorso.
I medici prenotano la ragazza per il 29. Dovrà presentarsi al pomeriggio, dopo aver consumato un pranzo leggero. Si va verso il parto indotto. In pratica la stimolazione «artificiale» delle contrazioni, attraverso una procedura che comporta vari passaggi. La cosa tragica è che questi step vanno seguiti in un arco di tempo molto ampio e possono durare, nel peggiore dei casi, ovvero se non producono effetti immediati, anche tre giorni!
Quel martedì mia figlia, che qui chiamerò Laura, viene sistemata nel reparto maternità. Indossa la sua camicia da notte nuova, con l’abbottonatura davanti come richiesto per il ricovero. Bianca e grigia, tutta bella pulita perché uno in ospedale vuole essere decoroso e in ordine. Le sue pantofoline, la sua vestaglia. Borsone con le cose della bambina appoggiato sul davanzale, biscotti e bottigliette d’acqua sul comodino per quando potrà consumarne.
Verso sera viene convocata tre piani più sotto per cominciare la procedura. Le viene inserita in vagina quella che viene ridicolmente chiamata «fettuccina» o anche, con più decenza, «fettuccia». E’ una garza allungata che termina con un filo tipo tampax. È imbevuta di prostaglandine e la sua funzione è quella di rilasciare lentamente la sua sostanza preparando così il collo dell’utero alla dilatazione.
Laura torna poi nella sua stanza, aspetta che spunti qualche sintomo, ma all’inizio non accade nulla. Nella notte invece, ecco i primi dolori. Sono forti, ma sopportabili, tanto che riesce a conviverci per tutto il giorno seguente, camminando per i corrodi dell’ospedale, piegata su sé stessa e con fitte improvvise, ma presente e socievole con chi la va a trovare. Siamo ormai nel cuore del mercoledì, mia figlia ha contrazioni da 16 ore quando, alle 18, viene invitata a presentarsi nuovamente all’altro piano, nel reparto neonatologia.
E’ il momento di togliere la famosa «fettuccina» e forse iniziare il resto della procedura, ovvero la somministrazione di ossitocina, l’ormone che mettono direttamente in vena per aumentare le contrazioni e favorire i movimenti dell’utero per dare il via al vero e proprio travaglio e quindi, si spera, al parto. Noi familiari veniamo tenuti fuori, sempre fuori. Anche con porte chiuse più o meno in faccia: perché le regole sono regole, pur quando applicate pedestremente e ottusamente. Certi ingressi non possono essere varcati, se non dai pazienti. Salvo quando le situazioni vanno fuori controllo e allora torna utile il supporto di un parente. Ed è proprio ciò che accade intorno alle 18,30 di quel mercoledì, mentre io sono sulle scale a scrivere dei whatsapp di aggiornamento sulle condizioni di mia figlia. Mi squilla il telefono, è il padre della ragazza: «Presto, vai subito da Laura, è fuori di sé per il male».
Corro di sopra, suono al reparto che, come d’incanto, sblocca la serratura per farmi entrare. Entro e ancora non lo so, ma da quel luogo non uscirò fino al giorno dopo, senza più la forza di parlare, dopo 12 ore di assoluto delirio.
Ore 19. Nella prima stanzetta con due lettini, trovo la mia Laura. Ha la fascia per il tracciato legata intorno alla pancia e collegata al macchinario che vede i battiti del cuore della bambina e l’arrivo delle contrazioni, con le sue inquietanti percentuali in costante oscillazione: 25, 47, 63, 99…. 99, il numero che coincide con l’apice delle grida. Lei è in piedi, mezza piegata, aggrappata un po’ all’ostetrica e un po’ all’asta delle flebo, in preda a dolori atroci. Piange, si dispera, urla. Quando mi vede entrare mi si butta addosso: «Mamma, aiutami ti prego!».
La mia sensazione di sgomento ed impotenza fa capolino in quell’istante per la prima volta, ma poi mi accompagnerà per il resto della notte, sconvolgendomi. «Non ce la faccio, non ce la faccio – strilla Laura – prima erano forti ma adesso sono insopportabili». Provo a consolare, a incoraggiare e intanto guardo l’ostetrica per cercare risposte nei suoi occhi. «Possiamo pensare che si stia avviando al travaglio? – chiedo – L’avete visitata, c’è dilatazione?». «Signora, signora… ma stia tranquilla, è tutto normale, la ragazza deve solo rilassarsi un po’, non si agiti!».
Veramente non ho il tono agitato, eppure vengo subito trattata come la classica madre apprensiva e in preda al panico. Non importa, niente importa, se non la buona e magari rapida conclusione di tutto. Un paio d’ore se ne vanno così, fra pianti, flebo di qualche blando calmante, cambio di posizione della ragazza, da in piedi a distesa, a seduta a rannicchiata. Poi mi dicono di infilarmi un camice, una cuffia e dei calzari verdi perché vogliono trasferirla in sala travaglio e io devo andare con le. Mi pare un’ottima notizia, forse ci siamo. Sono circa le 21. Pure Laura vede in quel passaggio un segnale di salvezza. Ma invece no. La notte è ancora lunga, lunghissima e siamo soltanto all’inizio.
Di sale travaglio ce ne sono due, una di fronte all’altra. Molto spaziose, con strumentazione varia appoggiata alle pareti e al centro la classica poltrona alta, semi-reclinata e con poggia-gambe che serve per fare partorire le madri. Ci sono tre persone che circolano intorno a noi, sono due ostetriche e un chirurgo donna. Vanno e vengono, si danno molto da fare. Mia figlia viene fatta montare sulla sediolona che per lei è scomodissima in quanto non può, e neppure deve, assumere la posizione della partoriente. E’ soltanto una persona in preda a dolori lancinanti che deve appoggiarsi da qualche parte. Prova a sedersi, piangendo e gridando, scivola giù, si aggrappa a me: «Come devo mettermi, che devo fare, aiutatemiiii, sto impazzendo dal maleee».
Le attaccano nuovamente il tracciato e una delle ostetriche le parla con dolcezza annunciandole che sta per visitarla. Io la tengo per le ascelle affinché non precipiti in basso da quella pendenza, le sussurro di provare ad appoggiare i piedi, le asciugo le lacrime, la rassicuro che adesso ci saranno buone notizie sulla dilatazione. Una mano guantata inizia la perlustrazione che immediatamente intensifica la sofferenza della ragazza. Esce sangue, muco e le grida aumentano. L’espressione dell’ostetrica dice tutto. Dai 2 centimetri di quattro ore fa, siamo passati a 3. Praticamente niente.
Viene presa una bombola con del protossido di azoto e a Laura viene detto di respirare profondamente nella mascherina di gomma che le appoggiano su bocca e naso. «E’ un gas che anestetizza un po’ e non fa male alla tua bimba, inspira e butta fuori, vedrai che ti darà sollievo». Lei ci prova, inspira istericamente tre, quattro volte, ma il beneficio non compare. E invece arriva il vomito. Presto! Un bidone della spazzatura viene lanciato accanto al seggiolone e la mia ragazza si piega su un fianco per rigettarvi dentro, a più riprese. La prima volta non abbiamo provveduto in tempo e la bella camicetta da notte bianca e grigia ne ha fatto le spese. E’ fradicia di vomito Laura e così viene denudata e rivestita con un camice giallo legato coi laccetti dietro.
Si sono fatte le 23. La donna chirurgo entra ed esce dalla stanza. Mentre una delle ostetriche si dedica anima e corpo al caso. Non si allontana mai e mette in campo tutte le idee possibili. Abbassa le luci della sala, aziona sul suo cellulare una di quelle musiche per il relax con il rumore di acqua scrosciante, afferra una palla di gomma gigante aiutando Laura ad appoggiarvisi sopra con la pancia e con il petto e a dondolarsi. Lei ubbidisce, ma intanto continua a piangere e a urlare.
Dove sono io? Sono sempre lì accanto, eseguo quel che mi viene proposto dalle operatrici e fantastico che forse mi trovo a casa nel mio letto e sto solo facendo un brutto sogno. «Massaggi sua figlia sulla schiena, quando arriva la contrazione le stringa forte i fianchi» mi dicono. Vado avanti e indietro con il palmo delle due mani sulla zona renale della mia ragazza, aiutata da un olio che mi hanno dato per fare scorrere il movimento. Lo faccio per un’ora intera, senza mai fermarmi, mentre ripeto a lei, ormai come un disco rotto, parole alle quali non credo neanche un po’. «Forza, resisti, vedrai che ci siamo, stai tranquilla, cerca di calmarti, appoggiati qui, appoggiati là».
Un’altra ispezione vaginale. Incrocio le dita, tanto nella penombra non mi vede nessuno. Ancora nessun progresso nella dilatazione…. Penso che devo pregare perché non so che altro fare. In quel momento, un’altra donna incinta fa il suo ingresso nel reparto. Sono le 2 di notte ormai. La sistemano nella sala travaglio di fronte e - oltre al danno la beffa – mia figlia, io e chi sta lì con noi, non possiamo far altro che ascoltare in diretta le fasi del suo parto. Liscio come l’olio: cinque o sei strilli della mamma, strascicati e acutissimi, poi un ultimo verso da animale squartato vivo e subito dopo il pianto del bambino saltato fuori. Mezz’ora e il tutto si è compiuto. Altre vite, altre storie. Noi siamo ancora qui ad arrabattarci.
Mi fanno portare mia figlia in una camera di breve degenza attigua alla sala travaglio. C’è un bagno e devo aiutarla mentre, seduta a cavalcioni su una sedia, si fa una doccia calda che dovrebbe alleviare i dolori e pure stimolare l’agognata dilatazione. Con il soffione puntato sulla pancia e me in piedi accanto a lei, andiamo avanti per mezzora. Laura è fradicia fino ai capelli e lo sono pure io, benché vestita. Ogni tanto spunta l’ostetrica, si affaccia e dice: «proseguite, proseguite che le fa bene». Alle 3 mia figlia ed io torniamo in sala travaglio. Entrambe gocciolanti, lei piegata in due, piangente e urlante, io che percepisco fisicamente l’espressione del mio volto cristallizzata in una smorfia da soldato sopraffatto e annientato dai colpi del nemico.
Ennesima visita, ancora dita che scavano fino in profondità e che tu immagini sfiorino o, peggio, tocchino con forza la testolina di questa povera bimba che non riesce a nascere. La nausea che provo è anche legata a quell’idea: Laura straziata, la bimba violata nel suo nido di pace, magari impaurita dal caos che di certo potrà avvertire. Ok, sento che è ora di pronunciare una parola importante: «Cesareo». Sono io a dirla, perché il personale che si sta adoperando si è più volte dichiarato integralista sulla volontà di seguire e onorare e mettere maniacalmente in pratica le famigerate «linee guida» della Sanità, in base alle quali l’iter del parto indotto ha tappe precise e prima di considerarlo definitivamente fallito devono passare tre giorni. TRE GIORNI!
E’ chiaro che le due ostetriche e la donna chirurgo non stanno facendo altro che attenersi alle regole imposte dal sistema. Ma con le poche energie fisiche, morali e mentali che mi restano, provo a far capire loro che, anche se il sistema sanitario rispetta (e quasi venera) un «protocollo», il ragionamento umano, del singolo, professionista o profano che sia, se dettato dalla logica e dal buon senso deve avere al meglio. Insistono: «Le linee guida, le linee guida, signora. C’è un protocollo preciso e abbiamo ancora tutto il tempo perché le cose migliorino».
Si decide allora di fare intervenire un anestesista affinché provveda all’epidurale, ovvero inserire un ago nella spina dorsale di Laura per iniettarle l’anestetico locale che dovrebbe bloccare o indebolire la potenza dei dolori. «Fatelo venire subitoooooooooo…. dove sta? Dove staaaa questo anestesistaaaa?». E’ il grido disperato di mia figlia che non è quasi più in sé.
Passa mezz’ora ed ecco che arriva la specialista. Un’altra donna. E’ una notte di donne quella che si sta consumando dentro questa sala, disseminata di strumenti, palloni di gomma, lenzuoli insanguinati e imbrattati di vomito, guanti di lattice usati, bacinelle e lampade scialitiche tenute spente. Un teatro di sofferenze pazzesche con 7 femmine che combattono: quattro professioniste, una madre annientata, una figlia allo stremo e una bimba incastrata in un misterioso interregno. Mi fanno allontanare di qualche metro, mi dicono di mettermi dietro il muro perché si tratta di una procedura delicata quella dell’anestesia e gli estranei non sono ammessi. Ne approfitto per cambiarmi i calzari di carta. Solo adesso mi rendo conto che sono zuppi di acqua (quella della doccia) e le scarpe al loro interno, pure. Da due ore ho i piedi a mollo su un pavimento ghiacciato.
«Venga signora, abbiamo finito». Mi riavvicino alla mia Laura, mi sembra più calma, le si è anche disteso il viso e mi guarda negli occhi per la prima volta dopo ore. «Mamma. E’ stato terribile. Ora sto meglio. Ho un male cane, ma non è niente in confronto a quello di prima. Mi arrivava fin dentro il cranio». Sorridiamo, ci accarezziamo a vicenda, accenniamo perfino qualche battuta scherzosa e auto-ironica mentre i numeri del tracciato proseguono nella loro altalena. 20 minuti di tregua. Solo 20 minuti e vedo Laura cambiare di nuovo espressione, trasfigurare, ricominciare a contorcersi, alzare il tono della voce, pronunciare un primo «oddio no, aiuto…» e poi risalire con le urla. L’effetto del farmaco è finito. Ne iniettano dell’altro, ma non procura alcun beneficio stavolta. Ancora una terza somministrazione. Niente. Mia figlia ha perduto ogni speranza, io anche. Lei pronuncia frasi agghiaccianti, eppure comprensibilissime per lo stato in cui si trova. «Fate qualcosaaaaaaaa o giuro che me la tiro fuori con le mie maniiiii sta bambina!!! Bastaaaaa».
Sono le 5,15. Guardo negli occhi tutte e quattro le professioniste e con tono pacato, ma risoluto, scandisco un concetto nella speranza che raccolgano il messaggio e dimentichino per un minuto il mantra delle «linee guida». «Care signore, ci avete provato in tutti i modi. Anche mia figlia ci ha provato. Ce l’abbiamo messa tutta, tutti quanti. Siete state eccezionali. Ma diciamocelo: non stiamo andando da nessuna parte. Laura non avrà mai la dilatazione sufficiente. E’ finita. Bisogna che le facciate il cesareo. D’altra parte, se anche la ragazza resistesse altre 24 ore in queste condizioni, mi chiedo con quali forze arriverebbe a sostenere un parto naturale. Vi prego, fermiamoci qui con questa procedura. E’ il momento della sala operatoria».
Scuotono tutte la testa, ma nei loro sguardi non leggo più la stessa pervicacia delle ore passate. L’anestesista mi prende per un braccio e mi dice di entrare con lei in una stanza dove mi fa un discorsetto. «Sua figlia è giovane signora, e un cesareo potrà essere compromettente anche per future gravidanze. Se lei decide e sua figlia è d’accordo, essendo maggiorenne, lei si assume la responsabilità di questo che è pur sempre un intervento chirurgico con tutti i suoi rischi».
Sono sfatta, piegata nel fisico e nella mente. Mi viene da piangere, cerco di capire se devo fare silenzio dentro di me per sentire la voce di Dio che mi dirà cosa fare. Poi, come una dolce ventata, avverto una sensazione di profonda umiltà interiore, di limpidezza. E rispondo. «Dottoressa. Io non sono Dio e non so con certezza dove stia la salvezza in questa notte terrificante. Posso soltanto ascoltare il mio buon senso e il mio raziocinio. Osservare i fatti e trarne le conclusioni. Lei mi sta dicendo che sotto i ferri si può anche morire. Ok. Non so cosa c’è scritto in cielo per Laura e per la sua bimba. Ma credo che dobbiamo intraprendere quest’ultima via. Avete il mio consenso. Portate quella mia benedetta figlia in sala operatoria>.
Preparano la ragazza, la svestono e la trasbordano dal seggiolone alla barella. Sono le 5,50. Lei è bellissima, nonostante la battaglia che ha affrontato. E’ stesa su quella lettiga, coi capelli ancora raccolti in un ormai scassatissimo chignon sopra la testa e il rimmel che per vezzo s’era messa al mattino, tutto sbrodolato sugli zigomi e lungo il collo. Io la guardo da in piedi accanto a lei e le tengo la mano. Faccio uno sforzo sovrumano per trattenere le lacrime. «Mamma – mi dice scrutandomi con quegli occhioni neri – è andato tutto così male fin qui, che quest’ultimo passo deve andare bene per forza, vero?».
Mia figlia ha sofferto inutilmente per 28 ore consecutive. E adesso mi tocca impiegare ogni muscolo ed ogni neurone per impormi di non farle sentire la mia voce spezzata dall’angoscia e dall’emozione. Sicuramente recito malissimo quando mi stampo in faccia un sorriso artificiale prima di aprire bocca. «Certo cara. Andrà tutto benissimo. E a breve vedrai la tua bambina. Vai tranquilla. E finalmente fatti un bel sonnellino. Ti aspetto fuori, tesoro della mamma».
Mi cacciano quasi subito. Non servo più a niente lì dentro. «Esca signora, qui non può stare, vada fuori». Disobbedisco in parte ai dictat frenetici e impietosi del personale che ha appena attaccato il turno delle 6 del mattino, e mi fermo a guardare il lettino con sopra la mia Laura che passa in mezzo a due grandi ante, spalancate da lui stesso, come quelle di un saloon. E scompare alla vista. Allora mi avvio alla porta dalla quale ero entrata 12 ore prima, esco e vado sulle scale. Metto i gomiti sul davanzale di una finestra altissima e appoggio la fronte sulle mie mani giunte……
Alle 6,30 un’infermiera dal volto umano mi viene a cercare. «Signora, la bambina è nata, è magnifica. Meno male che le hanno fatto il cesareo sa, la piccola aveva due giri di cordone ombelicale intorno al collo, stava soffrendo».
«Ditemi di mia figlia, come sta, si è svegliata?». E’ ciò che più mi sta a cuore adesso e la gioia per la mia nipotina, alla fine venuta al mondo sana e salva, la tengo chiusa e discreta in un angolo dell’anima: la assaporerò più tardi. «Fra poco la vedrà uscire sua figlia, stia tranquilla», mi rassicura l’infermiera. Ed eccolo spuntare, alle 7,10, il letto con le sbarre e le rotelle e la mia Laura sotto le lenzuola col braccio attaccato alle flebo. Passa davanti a me, è mezza addormentata, ma riesco a darle un bacio sulla guancia e a sussurrarle in un orecchio e questa volta in un pianto liberatorio, una piccola frase. «Sei stata bravissima, ma la bambina io non l’ho voluta vedere ancora, aspetto che la veda prima tu. E’ la tua vittoria».