Tra le epatiti virali è quella di più recente scoperta, oltre che la meno conosciuta: per via di una diffusione sporadica nei Paesi industrializzati. Ma il virus dell’epatite E è entrato in contatto con almeno un italiano su dieci. A tanto ammonta la quota di connazionali che ne possiede gli anticorpi: segno di un precedente contatto col virus, che nel nostro Paese si trasmette soprattutto per via alimentare. Il dato emerge dal primo studio retrospettivo sulla prevalenza fatto sui donatori di sangue dal Centro Nazionale Sangue e dall’Istituto Superiore di Sanità. Il dato minore è stato trovato in Basilicata, quello più alto in Abruzzo.

UN’INFEZIONE, QUATTRO GENOTIPI

Quella da epatite E è un’infezione «a due facce». Nei Paesi in via di sviluppo, dove sono presenti i genotipi 1 e 2, il virus fa decine di migliaia di morti l’anno. In quelli industrializzati, in cui i genotipi prevalenti sono 3 e 4, la malattia è nel novanta per cento dei casi asintomatica, mentre può dare epatiti acute e croniche in pazienti immunodepressi. L’Italia può essere considerata a basso rischio. Nel periodo 2007-2010 sono stati notificati sessanta casi, sei su dieci dovuti a importazione. Ma i dati, visto il carattere subclinico dell’infezione, rischiavano di essere sottostimati. Da qui l’idea di valutare la prevalenza a partire dai donatori di sangue. Nell’8,6 per cento dei campioni sono stati trovati gli anticorpi per il virus, segno che nel passato c’è stato un contatto. In nessuno di essi, comunque, è stato trovato il virus attivo e capace di replicarsi.

UN’INFEZIONE PIÙ DIFFUSA IN ITALIA CENTRALE

La prevalenza minore è stata trovata in Basilicata (2,2 per cento), quella più alta in Lucania (22,2 per cento). In generale le regioni dell’Italia centrale, Abruzzo, Marche, Lazio, Toscana e Umbria, e la Sardegna hanno mostrato la prevalenza maggiore, dovuta probabilmente al consumo maggiore di carne cruda di maiale. A parziale conferma dell’ipotesi riguardante l’origine animale del virus, c’è un lavoro pubblicato quattro anni fa sulla rivista «Emerging Infectious Diseases», secondo cui il dieci per cento della carne suina analizzata - campionata lungo le varie fasi della lavorazione: nel macello, negli stabilimenti di trasformazione e nei punti vendita al dettaglio - risultava contaminata dal virus dell’Hev.

Per prevenire il contagio è importante cuocere bene la carne, portandola a una temperatura al cuore di almeno 71 gradi: da controllare con un termometro casalingo che verifichi l’esatto grado di calore raggiunto. Diffuso principalmente attraverso il consumo di acqua contaminata dalle feci, il virus dell’epatite E, a differenza degli agenti infettivi della stessa famiglia, è l’unico che ha dimostrato di poter essere trasmesso a partire dagli animali: suini in primis, ma anche polli e tacchini. È per questo che, in ambito scientifico, si parla di una zoonosi, diffusa soprattutto per via diretta nelle categorie a contatto con gli animali.

UNA ZOONOSI POCO CONOSCIUTA

Il virus, riscontrabile in quattro diversi genotipi, si manifesta raramente come un’infezione acuta fulminante (nelle aree endemiche) e nella maggior parte dei casi come infezione subclinica, se il contagio avviene attraverso gli animali. In quest’ultimo caso il genotipo 3 è il più diffuso. Il quadro clinico si caratterizza per la perdita dell’appetito, la stanchezza, la produzione di urine scure e feci chiare, la febbre e l’ittero cutaneo.

L’epatite E, che di norma guarisce in un paio di settimane, può essere pericolosa se contratta nel terzo trimestre di gestazione. In questo particolare periodo della vita si possono verificare episodi di epatite fulminante e complicazioni ostetriche, se l’infezione è sostenuta dai genotipi virali 1 e 2 che circolano in Asia, Africa e America centrale. Non è stato finora riportato un aumento del tasso di mortalità tra le donne in gravidanza affette da virus di genotipo 3.

VERSO UNO SCREENING PER L’EPATITE E?

L’epidemiologia pone in cima alla classifica europea la Francia, che nel 2014 ha avuto 1825 casi di infezione. In Gran Bretagna ne sono stati invece censiti 800. In Italia la rete del ministero della Salute ha registrato 211 casi tra il 2007 e il 2016: in prevalenza in uomini di mezza età. «Il rischio maggiore è di una trasmissione per via alimentare per quasi tutti i pazienti - osserva Dragoslav Domanovic, infettivo logo del Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (Ecdc) -.

Soltanto per quelli fortemente immunodepressi, che sono trattati con una grande quantità di derivato del sangue, esiste un rischio maggiore di trasmissione attraverso questi prodotti». Aggiunge Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Centro Nazionale Sangue: «Il lavoro proseguirà con uno studio prospettico, in cui il virus verrà cercato in donatori arruolati tenendo conto dei dati di prevalenza emersi da questo studio. L’infezione è considerata una malattia emergente in Europa. Tutti i Paesi stanno iniziando ad analizzarla con attenzione per valutare l’eventuale necessità dell’adozione di misure di screening».

Twitter @fabioditodaro


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