In caso di infarto, ogni minuto può fare la differenza: anche oltre le due ore, fino a questo momento considerato l’intervallo standard di intervento per salvare la vita di un paziente. Un messaggio da tenere a mente soprattutto durante la bella stagione, quando sono maggiori le probabilità di trovarsi in luoghi più distanti da servizi di assistenza sempre in maggiore difficoltà. Ai (presunti) pazienti tocca saper riconoscere subito i segni tipici dell’infarto, chi si occupa dei soccorsi è invece chiamato a rispettare i tempi di intervento.
Il tempo è prezioso
Più precoce è l’intervento, maggiori sono le probabilità di superare l’evento acuto cardiovascolare. Un aspetto, quest’ultimo, che va oltre la «golden hour»: ovvero l’intervallo di due ore considerato per anni il limite per intervenire con l’angioplastica. Come dice la nuova campagna «Ogni minuto conta», voluta da «Il Cuore Siamo Noi - Fondazione Italiana Cuore e Circolazione Onlus», è la cura dei minimi dettagli a fare la differenza. Per ogni dieci minuti di ritardo nell’intervento, infatti, la mortalità cresce del tre per cento. «Sappiamo già che la rapidità dei soccorsi in caso di infarto è indispensabile - spiega Francesco Romeo, professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in cardiologia dell’Università Tor Vergata di Roma -. Ma gli ultimi studi clinici, che ormai coinvolgono migliaia di pazienti, hanno dimostrato che non esiste in realtà una soglia che permetta di discriminare tra intervento tempestivo o meno. Quel che è certo è che la prognosi del paziente peggiora in maniera continua all’aumentare del ritardo nel trattamento».
I sintomi da non trascurare
Secondo gli esperti è necessario che a bordo di ogni ambulanza ci sia un elettrocardiografo, in modo da poter essere certi della diagnosi ancora prima di arrivare in ospedale. In questo modo è possibile evitare il passaggio dal pronto soccorso per portare il paziente direttamente nella sala di emodinamica: un «salto» che può far risparmiare fino a mezz’ora. «Qualsiasi perdita di tempo in caso di infarto provoca un aumento della mortalità», aggiunge Ciro Indolfi, direttore dell’unità operativa complessa di cardiologia emodinamica del policlinico universitario di Catanzaro e presidente della Società Italiana di Cardiologia, che ha patrocinato l'iniziativa. I ritardi, come detto, possono essere dovuti al paziente o al sistema dell’emergenza. Perciò occorre lavorare su ambo i fronti. «Dobbiamo far sì che chiunque sappia riconoscere i segni dell’infarto - prosegue Indolfi -. Un dolore oppressivo al centro del petto che insorge a riposo e dura per più di venti minuti irradiandosi al braccio sinistro rappresenta la manifestazione più tipica. Ma spesso l’attacco cardiaco si presenta in maniera più subdola: come un dolore addominale o nella parte posteriore del torace mai avvertito prima, con l’insorgenza improvvisa dell’affanno a riposo o con uno svenimento».
Angioplastica (o trombolisi)
In queste situazioni, più difficili da individuare, è bene che il paziente, preoccupato dal persistere dei sintomi, chiami quanto prima i soccorsi o si rechi al pronto soccorso più vicino per escludere la presenza di infarto. Dal momento del primo contatto con i medici occorre poi ridurre i ritardi dovuti alla gestione dell’emergenza. «Le linee guida indicano che la diagnosi di infarto deve essere fatta in meno di 10 minuti». È perciò essenziale che i mezzi di soccorso abbiano a bordo un elettrocardiogramma e che i centri non dotati di una sala di emodinamica per le angioplastiche possano garantire un trasferimento il più rapido possibile a un centro dove possa essere effettuato l’intervento. Se ciò non è possibile, si fa partire il trattamento farmacologico (trombolisi) e si provvede quanto prima al trasferimento del paziente in un centro dotato di una sala di emodinamica.
Twitter @FABIO DI TODARO