L’ultimo a «pagare» la scelta di una vita è stato Marco Sguaitzer, scomparso pochi giorni fa a 60 anni. Il suo nome è l’ultimo di una lista sempre più corposa di calciatori le cui vite sono state stroncate dalla sclerosi laterale amiotrofica .
Prima che a lui, lo stesso destino era toccato a diversi colleghi: Gianluca Signorini fu il primo (2002), Stefano Borgonovo (2013) probabilmente il nome più noto. Nel mezzo tanti altri uomini, più o meno ricordati per le loro gesta sul rettangolo verde da Adriano Lombardi (ex Como, stessa squadra in cui avevano militato pure Borgonovo e Canazza) ad Armando Segato (primo ex calciatore a vedersi diagnosticata la Sla nel 1968), da Paolo List (l’ultima vittima prima di Sguaitzer, 2016) a Lauro Minghelli (il più giovane, scomparso a soli 31 anni). Tutti uomini, accomunati da uno stesso destino: aver calcato per anni i campi da calcio ed essersi ammalati di Sla, la più aggressiva tra le malattie che possono colpire i motoneuroni (responsabili del movimento). Inevitabilmente, dunque, che il quesito si riproponga: è l’aver giocato a calcio ad aver fatto ammalare (e morire) questi uomini?
La Sla e i calciatori
Perché una simile «Spoon River» sia potuta accadere, non è ancora dato saperlo. Ma che esista una correlazione - essere stato calciatore determina un’aumentata probabilità di poter sviluppare la malattia - è ormai praticamente assodato. Evidenze di questo tipo ce n’erano già, l’ultima però non lascia adito a dubbi: il rischio risulterebbe aumentato fino al doppio e i calciatori (o ex) potrebbero ammalarsi anche in largo anticipo rispetto al resto della popolazione.
Dai dati preliminari in possesso dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri si evince infatti che se l’incidenza media della malattia è di 1,7 casi ogni centomila abitanti, tra i calciatori italiani arriverebbe fino a 3,2: sempre su un campione di centomila unità. A queste conclusioni, i ricercatori milanesi sono giunti dopo aver spulciato i curricula di oltre venticinquemila ex calciatori professionisti italiani, in attività durante un periodo lungo quarant’anni: tra il 1959 e il 2000. L’analisi dei loro trascorsi, incrociata ai dati clinici di chi ha sviluppato la Sla, ha permesso ai ricercatori di avere la conferma di quella che era soltanto un’ipotesi: i calciatori convivono con un rischio più alto di ammalarsi, che preoccupa soprattutto in ragione dell’assenza di cure efficaci.
Le cause? Impossibile (ancora) determinarle
La ricerca, non ancora pubblicata, sarà presentata a maggio al congresso annuale dell’American Academy of Neurology, in programma a Philadelphia dal 4 al 10 maggio. Tra i calciatori, in media, la Sla è insorta a 43 anni, rispetto 63 che si registrano come età media della diagnosi nella popolazione generale. «Alla luce dei casi di malattia già registrati, il nostro studio conferma che i calciatori convivono con un rischio aumentato di sviluppare la malattia», anticipa Ettore Beghi, responsabile del laboratorio di malattie neurologiche dell’istituto di ricerche milanese. Preso atto di ciò, però, quello che i calciatori (o ex) e le loro famiglie vorrebbero sapere a questo punto è quali siano i fattori di rischio a cui chi ha trotterellato per anni sul prato verde è risultato più esposto rispetto al resto della popolazione.
Certezze, a riguardo, non ce ne sono. «I ripetuti eventi traumatici, l’esercizio fisico intenso e l’uso di sostanze farmacologiche potrebbero avere un ruolo - aggiunge l’esperto -. Al momento, però, non siamo in grado di affermare altro, a riguardo. E poi occorre considerare l’eventuale predisposizione genetica alla malattia »: senza la quale l’esposizione a un fattore di rischio potrebbe risultare comunque insufficiente a innescare il processo degenerativo. Ecco spiegato perché, secondo Beghi, «i risultati dello studio non devono portare nessuno a evitare questo sport: né a continuarlo né eventualmente a intraprenderlo».
I limiti della genetica
L’aspetto della predisposizione genetica va chiarito. Ciò che è scritto nel Dna fornisce un dato indelebile su qualcosa che potrebbe accadere nel futuro, senza certezze riguardo al fatto se, quando e con quale gravità, svilupperemo mai la malattia. Precisare questo aspetto è fondamentale, soprattutto in malattie progressive (come la Sla) per la quale l’informazione genetica è disponibile prima che ci siano efficaci misure preventive, di monitoraggio precoce e terapeutiche. La maggior parte delle malattie ha origine dall’interazione tra geni e ambiente. Siccome su questo secondo aspetto si può eventualmente intervenire, la sola predisposizione genetica non è sufficiente ad affermare che una persona si ammalerà con certezza (questo vale per la Sla, ma pure per tutte le altre malattie).
Twitter @fabioditodaro