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Non importa se praticano la professione da una vita o se hanno maturato una lodevole esperienza con i pazienti, ma spesso i medici sbagliano nel fare previsioni su quanto tempo rimane da vivere a un malato terminale. Sbagliano sia per difetto che per eccesso, anche se si denota una lievissima tendenza a essere più ottimisti. Almeno è questo quello che succede nel Regno Unito, secondo uno studio condotto dal Dipartimento di Ricerca Cure Palliative dell’University College di Londra.

Le conclusioni, riportate dal quotidiano britannico Independent, si basano su una revisione di oltre 4600 annotazioni mediche, dove i medici hanno appuntato le loro previsioni circa la sopravvivenza dei pazienti in cura. Da questi appunti i ricercatori hanno rilevato un’ampia varietà di errori di previsione. In particolare, i medici tenderebbero a sottostimare il tempo rimasto a un malato terminale sbagliandosi in media di 86 giorni e tenderebbero a sovrastimarlo, sbagliando in media di 93 giorni. Al momento non è stata individuata alcuna categoria di medici più brava nel fare previsioni. Secondo i ricercatori, infatti, sbagliano sia i dottori più esperti o anziani che quelli più giovani e alle prime armi.

Eppure, riuscire a fare una previsione più accurata possibile può essere molto importante, sia per il paziente che per la sua famiglia. «Dare la terapia più appropriata nelle fasi terminali di una malattia dipende spesso dalla previsione accurata dei medici», spiega Paddy Stone, esperto di cure palliative e fine vita, nonché autore dello studio. «Sapere quanto tempo rimane da vivere può aiutare i pazienti e i loro cari a fare scelte più consapevoli sulle terapie», aggiunge.

Ecco perché ora i ricercatori sono impegnati nel capire se può essere possibile aiutare i medici a fare previsioni più accurate. «Questa ricerca – sottolinea Stone - suggerisce che non ci sono modi semplici per capire quali medici siano più bravi a prevedere la sopravvivenza di un paziente. Essere più vecchi o più esperti non necessariamente rende un medico più bravo nel fare previsioni, ma ora vogliamo vedere se è possibile individuare come e perché alcuni medici sono più bravi di altri nel prevedere la sopravvivenza, e capire se questa competenza possa essere insegnata».

La questione non è solo scegliere la terapia più adatta, ma anche rendere più confortevoli gli ultimi giorni di vita. «Per una persona che sta morendo e per i suoi familiari, l’incertezza può rendere il tempo rimasto più doloroso e difficile da affrontare», dice Stephanie Aiken, vicedirettrice del Royal College of Nursing. Ma c’è una figura, quella dell’infermiere che si prende cura dei malati terminali e dei propri cari, che potrebbe dare una mano a capire quanto tempo rimane a un paziente in fin di vita.

«Proprio come quando nasciamo – continua - la tempistica precisa della morte può essere una scienza inesatta, ma gli infermieri che si occupano delle persone alla fine della loro vita riconoscono l’impatto positivo di essere più aperti possibili all’osservazione dei segnali del corpo, anche se questo non ti permette di fare previsioni definitive». Non è tanto, ma neanche poco.

«Chiaramente si può fare di più per migliorare il riconoscimento dei segnali che manda chi sta morendo, e sostenere le famiglie con le giuste informazioni», conclude Aiken.

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