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Dalla ricerca di base sulla chimica dell’erba gatta, quella che fa impazzire i mici di casa, potrebbero venire suggerimenti interessanti anche per altre piante, eventualmente di interesse farmacologico.

Sappiamo che gli effetti euforizzanti e inebrianti di questa pianta, la Nepeta cataria, sono dovuti ad una sostanza chiamata nepetalattone. Ora, un team di scienziati del dipartimento di Chimica biologica del John Innes Centre di Norwich nel Regno Unito ha pubblicato sulla prestigiosa rivista «Nature Chemical Biology» un lavoro che svela il meccanismo di produzione di questo metabolita secondario, che appartiene alla classe degli iridoidi e che svolge una funzione difensiva per la pianta Nepeta. Il composto eccitante viene prodotto con un processo in due step mai osservato in precedenza, a livello di micro-ghiandole localizzate nella parte inferiore delle foglie, e prevede il coinvolgimento non di uno ma di due enzimi.

«Pensiamo di usare i meccanismi scoperti per arrivare a creare composti utili che possono essere utilizzati nel trattamento di malattie come il cancro» ha detto il primo autore dello studio, Benjamin Lichman.

«Il lavoro è una ricerca di base elegante e robusta e che potrà essere certamente utile in prospettiva nello studio di piante di interesse farmacologico, che contengano alcaloidi indolici e iridoidi» ci spiega Renato Bruni docente di Botanica e Biologia farmaceutica del Dipartimento di Scienze degli Alimenti e del Farmaco dell’Università di Parma.

Il professor Bruni spiega come sia ipotizzabile che «gli stessi processi enzimatici scoperti nella Nepeta possano essere coinvolti in altre piante». Gli autori dello studio citano ad esempio la vinca rosea (Catharanthus roseus), detta anche pervinca del Madagascar, che produce la vincristina e la vinblastina, molecole dalle note proprietà antitumorali.

Questi alcaloidi sono contenuti in alcuni farmaci per il trattamento delle leucemie, dei linfomi, e dei tumori solidi come il cancro al seno e al polmone. Sono però molecole molto grandi e complesse, difficili da sintetizzare: vengono estratti dalle piante che coltivate appositamente (da una tonnellata se ne estraggono pochi grammi). «Conoscere i meccanismi con le piante li producono consentirebbe, con un intervento biotecnologico, di potenziarne ad esempio la sintesi» spiega Bruni. E magari, un giorno, arrivare a produrli in laboratorio.