Il decorso della malattia è progressivo: terapie ce ne sono, ma nulla che nel tempo riesca a far scomparire il Parkinson. Così, nel tentativo di far fronte alla degenerazione neuronale, si continuano a studiare i possibili interventi in grado di rallentarne la progressione. Da un punto di vista terapeutico, notevoli avanzamenti sono stati compiuti nel campo delle neurotecnologie correlate alla stimolazione cerebrale profonda . L’uso di elettrodi direzionali e di dispositivi che consentono di modellare il campo elettrico generato all’interno del cervello risultano essere utili anche nella gestione di casi complessi, come si evince da una ricerca pubblicata sul «Journal of Neurological Sciences».
Benefici a lungo termine dalla stimolazione cerebrale profonda
L'aspetto originale è che, per la prima volta, la ricerca è stata mirata alla valutazione dell’effetto a lungo termine della stimolazione cerebrale profonda su complicanze frequenti ed invalidanti della fase avanzata della malattia di Parkinson come il decadimento cognitivo, i disturbi urinari, le cadute, le ospedalizzazioni e la mortalità.
Tutti aspetti finora «non adeguatamente valutati nella letteratura scientifica disponibile», è la considerazione degli autori del lavoro: ricercatori dell’Università Statale e dell’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, oltre che Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri. Nello studio sono stati inclusi 182 pazienti con malattia di Parkinson seguiti presso sei centri distribuiti su tutto il territorio italiano. Di questi pazienti, 91 sono stati trattati con la stimolazione cerebrale profonda e altrettanti con la terapia farmacologica convenzionale (levodopa). I risultati hanno documentato che i pazienti trattati chirurgicamente presentavano nel tempo meno disturbi cognitivi di grado lieve, un minor rischio di cadute e di disturbi urinari. E venivano ricoverati in ospedale meno frequentemente per malattie non correlate al Parkinson, rispetto ai pazienti trattati con la terapia farmacologica.
Nessun rischio demenza
Inoltre, la stimolazione cerebrale profonda non è risultata associata né a un aumento della mortalità né del rischio di demenza. «Per la prima volta abbiamo valutato in maniera sistematica gli effetti dell’approccio chirurgico, andando oltre i soli aspetti motori - dichiara Emma Scelzo, neurologa dell’Istituto Carlo Besta e primo autore della ricerca -. Una migliore definizione degli effetti della stimolazione cerebrale profonda sui disturbi cognitivi, sull’incontinenza urinaria e sulle cadute, oltre che sul numero dei ricoveri e sul rischio di mortalità correlato al trattamento chirurgico, è essenziale al fine di individuare l’iter terapeutico più adatto per ogni paziente in considerazione della totalità dei suoi sintomi».
Sulla stessa lunghezza d’onda si pone Alberto Priori, direttore della clinica neurologica dell’ospedale San Paolo e ordinario alla Statale di Milano: «I risultati di questa ricerca confermano l’utilità della stimolazione profonda nella terapia del Parkinson, anche in ragione delle evidenze sugli effetti che si manifestano nel tempo. L’arrivo di nuove opportunità tecnologiche la renderanno probabilmente ancora più efficace».
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