La decisione di pubblicare il racconto della «lunga notte di Laura», è nata dalla sensazione che si trattasse di una esperienza importante per la sua drammaticità. Nonostante fosse lo spaccato di qualcosa di privato e intimo, abbiamo ritenuto giusto renderlo noto affinché servisse da monito alle donne in procinto di partorire e ancor più nella speranza che le istituzioni responsabili della stesura di determinate «linee guida», si rendessero conto che nella procedura del «parto indotto», qualche ingranaggio andrebbe messo a punto. Ci siamo chiesti: rivedere e correggere i parametri del cosiddetto «protocollo», metter mano alle sue rigidità, introducendo elasticità interpretative in base ai singoli casi, potrebbe aiutare?

L’articolo che riportava la cronaca fedele di una nascita avvenuta tramite «induzione» e attraverso un percorso di difficoltà e lunghe sofferenze, una volta postato sulla pagina Facebook della Stampa, ha raccolto in poche ore più di 400 commenti. Gli utenti hanno continuato a scrivere, ininterrottamente, anche nei giorni successivi. Testimonianze di donne, ma anche di uomini (e questo è un dato importante) che, con ammirevole garbo, hanno espresso solidarietà alle protagoniste della storia e hanno condiviso i ricordi di analoghi vissuti.

Racconti dolorosi, commoventi, in alcuni casi strazianti. E questo fa emergere un fatto: il sistema dell’«induzione al parto», così come è strutturato, non offre garanzie di perfetta riuscita.

E’ come se ci si mettesse in cammino su un sentiero che va da un punto di partenza a un punto di arrivo. Ci sono i segnali che indicano la strada, abbiamo mappe dettagliate e ad ogni chilometro c’è il nome preciso del luogo in cui ci troviamo. Il problema però, è che la certezza del nostro giungere in condizioni ottimali a destinazione, non c’è, o quanto meno è affidata a variabili imprevedibili.

Quindi che fare? Non avventurarsi per nulla su quel sentiero? Escludere a priori quel tipo di gita? In realtà, se ci si pensa bene, basterebbe segnare sulla guida, le vie di fuga in caso di imprevisti. E le istruzioni su quando, dove e in che modo mettersi al sicuro in caso di eventi potenzialmente pericolosi. Infine avvisare per iscritto turisti e accompagnatori, che quelle «vie di fuga» non sono soltanto segnalate, ma viepiù caldamente consigliate se la situazione diventa anche solo vagamente temibile o peggio, rischiosa.

LE ESPERIENZE DEI LETTORI

La valanga di commenti sui social dopo la pubblicazione della storia di Laura, non può e non deve passare inosservata. Impossibile citare tutti i post nella loro pregevole consistenza.

Ma ci ha colpito la testimonianza di Gianna, anche lei nonna, ma di un bambino mai nato. Ha commentato sotto il nostro articolo: «Dopo uso di fettuccia, rottura delle acque da parte del ginecologo, ossitocina in vena, ventosa, manovra di Kristell, episiotomia, il mio bellissimo nipotino dopo la nascita è stato portato in terapia intensiva dove è mancato dopo 7 ore, maledetti».

Rosanna ha condiviso con affetto il buon esito del caso di Laura, nonostante nella sua famiglia vi sia il ricordo di una tragedia: «Sono felice che alla fine è andato tutto bene, mia sorella dopo 3 fecondazione artificiali è rimasta incita normalmente, alla fine della gravidanza ricoverata in ospedale anche lei in ritardo, le hanno indotto il parto con il gel, nel nascere la sua bimba è morta. Bastava un cesareo».

Marilena non potrà mai avere un bel ricordo della nascita di suo figlio: «Come capisco tutto ciò...ho rotto le acque l'8 dicembre, al mattino e la mia bimba è nata la sera dopo alle 21.58 in mezzo ore di ossitocina, urla, contrazioni, cambi infiniti di posizione. Io stavo x cedere ed ho implorato mi fosse fatto il cesareo. Così fu: epidurale e taglio...la tirano fuori, lei sta bene, io ho le convulsioni. Mi intubano e mi portano in rianimazione. Mi sono svegliata esattamente 24 ore dopo con mia madre accanto che piangeva e le foto di mia figlia sul suo cellulare. Così l'ho conosciuta per la prima volta. Mi hanno detto che ero sveglia al momento del parto, ma io di quel parto non ho memoria, buio totale dal momento della firma per l'autorizzazione al cesareo. È stato un inferno. Capisco ci siano delle linee guida da seguire ma bisognerebbe tener conto di come vanno le cose poi x davvero. Perché è un attimo e tutto precipita».

Silvia per fortuna ha avuto due nascite, ma una di queste l’ha segnata per sempre. «Ho due bambini... rivivo come fosse ieri il travaglio della mia bimba... parto indotto... 3 giorni di sofferenza per poi optare per la rottura manuale del sacco... 7cambi letto... braccio annientato dai prelievi e dal posizionamento dell'ago canula... 7gg di ricovero...se fosse stato il mio primo parto non avrei più voluto bambini... ora è solo un ricordo un brutto ricordo ma quei momenti sono stati tutto tranne che magici!».

E Natascia ci aiuta a capire come l’ostinazione a non intervenire con taglio cesareo, non sia una tendenza poi così recente. «Ho subito la stessa cosa, 27 anni fa, ero una giovanissima mamma di 20 anni. E per questo dovevo ostinarmi a partorire naturalmente... un medico che aveva capito la gravità è intervenuto dopo quasi 30 ore di travaglio ed un inizio di sofferenza per il bambino. Grazie a Dio è andato tutto bene... ma vedo che non è cambiato nulla. In sala parto comandavano le ostetriche e mi hanno trattato peggio di una bestia... mi spiace veramente molto che possano ancora accadere queste cose. Le donne non devono più soffrire. Speriamo...».

Qualcuno ha voluto partecipare al dibattito ma, scoprendo quel che può accadere in sala parto, ha confermato di volere evitare ad ogni costo l’esperienza della maternità. Scrive infatti Martina «Non ho figli. Non ne voglio. Eppure, non capirò MAI come si possa pensare che una madre sconvolta, distrutta e devastata dal dolore possa essere in forze per partorire, dopo 12-18-30 ore di sofferenze indicibili. E soprattutto, come si fa a mettere volontariamente a rischio la vita del nascituro? Capisco che nel 2019 la donna sia considerata alla stregua di una mucca che deve sgravare, quindi poche palle che siamo programmate per questo, ma allora nemmeno la vita della creatura importa. Ammettiamolo e piantiamola con la retorica ipocrita della sacralità della nascita e della maternità».

LA PAROLA AI SANITARI
Registrata questa sorprendente ondata di sofferta partecipazione alla doppia questione «induzione al parto» e «taglio cesareo», abbiamo ritenuto fosse doveroso e utile dar voce ai professionisti del settore, per guardare al problema da un altro punto di osservazione e provare a comprendere le basi di certi percorsi clinici.

«Ogni donna sa bene che non c’è attesa più trepidante di quella che separa dalla nascita del proprio bambino – affermano Elsa Viora e Claudio Crescini, presidente e vice presidente della AOGOI Associazione Ostetrici e Ginecologi Ospedalieri Italiani -. Per quanto il parto sia un evento del tutto fisiologico sono tante le paure che si accompagnano a questo particolare momento. Nel caso di una gravidanza giunta ormai al termine, la necessità di dover far nascere il bambino perché l’utero non rappresenta più l’ambiente ottimale, determina la necessità di indurre il parto, come successo alla protagonista della lettera. L’esperienza si è conclusa con il lieto fine, per mamma e bambino, ma l’esperienza non è stata delle migliori».

Dottoressa Viora e dottor Crescini, le testimonianze di chi ha avuto esperienze complicate in sala parto possono essere utili a correggere certe procedure?
«Abbiamo per molti anni lavorato moltissimo come associazione AOGOI per innalzare il livello professionale del nostro personale per raggiungere e superare i risultati in ambito di mortalità e di morbilità materno neonatale ottenuti in paesi come la Svezia ed il Giappone, ma l’autrice della lettera ci ha ricordato che molto dobbiamo ancora fare nell’ambito della comunicazione e nella gestione del dolore in travaglio. E per questo la ringraziamo».

Quali margini di sicurezza possiamo prevedere per un parto ai giorni nostri?

«Molti decenni fa la gravidanza ed il parto erano eventi di grande pericolo per la vita della donna e del bimbo tanto è vero che secoli fa era più pericoloso partorire che andare in guerra. Oggi la mortalità materna in Italia è una delle più basse del mondo ed è pari a 9 donne ogni 100.000 parti ed altrettanto minimale è la mortalità neonatale. Negli Stati Uniti è più del doppio di quella italiana. Di conseguenza, avendo sostanzialmente risolto i problemi più gravi legati alla maternità, è nostro assoluto dovere, peraltro ricordatoci nelle raccomandazioni dell’OMS dell’anno 2018, far sì che l’evento nascita sia un evento non solo sicuro ma anche una esperienza di vita positiva per la mamma e per il papà».

Non sempre il parto rappresenta un’esperienza positiva per la mamma e per chi le sta accanto. Il personale valuta a dovere tutti i tasselli di questo evento?
«Ampi studi delle neuroscienze ed anche l’esperienza comune di tutti i giorni insegnano come sia profondamente diverso il vissuto di una esperienza eccezionale come il dare alla luce il proprio bimbo da parte della diretta protagonista, la mamma, rispetto alle persone che le sono vicine, la nonna, il compagno, la sorella, seppur emotivamente coinvolte e partecipanti. Generalmente molte situazioni che non vengono neppure osservate e ricordate dalla donna e che accadono nel corso del travaglio (perdita di liquidi organici, posture non abituali, espressioni verbali inconsuete, ecc.) e che sono parte intrinseca di un evento fisico ed emozionale unico e primordiale nella sua essenza, possono essere interpretate in modo differente e variabile da persone non direttamente protagoniste dell’evento. Tanto è vero che non è eccezionale dover assistere e sostenere parenti della gravida che manifestano segni di malessere fino alla perdita di coscienza per shock emotivo durante la loro presenza in sala parto».

Quanto è importante lo stato emotivo/psicologico della partoriente?
«La donna in travaglio deve essere sostenuta ed accompagnata con amore e gentilezza, deve poter trovare un ambiente accogliente, sereno, silenzioso e tranquillo perché solo così la parte più ancestrale del suo cervello potrà prendere il sopravvento temporaneo sulla neocorteccia e produrre quelle sostanze neuroendocrine che favoriscono processi fisiologici invariati da milioni di anni, come ben descritto da Michel Odent nei sui libri».

Il dolore nella fase del travaglio dovrebbe essere gestibile con efficacia. Nel caso della giovane Laura l’epidurale si è rivelata inutile, come mai?
«Per milioni di anni si è realizzato quanto scritto nella Bibbia dove Dio rivolgendosi ad Eva che aveva colto il frutto proibito disse: “moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze. Con dolore partorirai figli.” Oggi disponiamo di molti strumenti estremamente efficaci per controllare il dolore del travaglio di parto sia per la fase di latenza sia per la fase attiva e se necessario anche per il puerperio. Disponiamo di tecniche che vanno dai mezzi fisici (massaggi, applicazioni di panni caldi, vasca con acqua, ecc.) a quelli farmacologici (oppioidi) fino a procedure invasive come l’anestesia peridurale. Questi strumenti vanno utilizzati in modo appropriato, nei tempi giusti ed in base alle richieste ed ai bisogni della donna. Purtroppo nella lettera della mamma della ragazza in travaglio sembra evidente che nel punto nascita in oggetto, l’aspetto del controllo del dolore, per motivi che non conosciamo, non sia stato adeguatamente affrontato e quando si è intervenuti era ormai troppo tardi. Quando la cascata biochimica del dolore si è attivata diventa sempre più difficile controllarla perché la persona che ne soffre è ormai entrata in una fase di refrattarietà fisica e psicologica ai presidi analgesici che ne rende meno efficace l’azione».

Quanto è importante la disposizione e la preparazione del personale che assiste una donna in sala parto?
«Spesso gli organici sono sottodimensionati ed il carico di lavoro è eccessivo ed ormai in tutti i punti nascita è diventato molto difficile poter garantire un’assistenza personalizzata e continua. Chi lavora in sala parto sa bene che è suo dovere avere la capacità razionale di riconoscere deviazioni dalla fisiologia, insorgenza di situazioni di pericolo e conoscere gli interventi dell’arte ostetrica appropriati per prevenire o curare eventuali patologie che possono compromettere vita o salute di mamma e neonato. Non sempre quando il personale è sguarnito, come per tanti motivi sempre più spesso accade nei punti nascita, tutto questo è possibile».

Quali sono i tempi ragionevoli o accettabili per un «parto indotto» e per quale motivo il taglio cesareo è spesso visto come l’ultima spiaggia del percorso?
«Anche per questi quesiti la ricerca medica e gli studi epidemiologici hanno dato una risposta basata su centinaia di ricerche i cui risultati vengono quotidianamente pubblicati sulle riviste mediche. Negli ultimi anni i ricercatori sono finalmente riusciti a comprendere le basi microbiologiche che causano una differenza nello sviluppo del sistema immunitario nei soggetti nati da parto vaginale rispetto a quelli nati da cesareo, dimostrando che il passaggio attraverso il canale vaginale favorisce la colonizzazione del neonato da parte di batteri “buoni” e di conseguenza una migliore produzione di anticorpi. Tutti i dati della letteratura mondiale dimostrano che per mamme e neonato il parto vaginale, quando non vi sono situazioni particolari, è sicuramente preferibile al taglio cesareo. L’OMS dichiara che la percentuale di tagli cesarei realmente necessari non dovrebbe superare il 15%, mentre in Italia siamo al 36 % E’ proprio nell’interesse di mamma e bambino che il personale ostetrico più responsabile e preparato cerca di contenere il tasso di tagli cesarei, sebbene questo, come dimostra la lettera, non sempre corrisponde ai desiderata dei parenti presenti sulla scena del parto o a quelli della donna stessa».

Perché è così importante per un operatore sanitario attenersi al «protocollo»?
«Nessun medico è umanamente in grado di mantenersi aggiornato in un mondo in cui la ricerca scientifica produce materiale ad un ritmo vertiginoso e talvolta contraddittorio o comunque non definitivo. Per questo motivo enti governativi ed associazioni mediche cercano di fare il punto dello stato dell’arte riassumendo e schematizzando i risultati della ricerca nelle cosiddette Linee Guida che diventano poi protocolli e algoritmi di uso pratico che guideranno l’operato dei singoli operatori e delle equipe mediche. Anche la recente legge italiana sulla responsabilità medica nota come legge Gelli sancisce che la colpa grave in caso di esito negativo di un intervento medico è attribuibile al professionista se non ha seguito le linee guida e da questo ne è derivato un danno alla persona assistita. La stessa legge ricorda però che è possibile derogare dalle linee guida purché ci sia un documentato e dimostrato motivo che induca il medico a non rispettarle in quel preciso e particolare caso».