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È un’emergenza sanitaria globale, un killer poco conosciuto ma che colpisce dieci volte di più dell’infarto, provocando il decesso di una persona ogni 3-4 secondi. La sepsi è causata da una risposta sregolata a un’infezione da parte del sistema immunitario che, invece di reagire contro i microorganismi invasori, attacca l’organismo stesso, danneggiando organi e tessuti che non sono sede dell’infezione primaria.

In occasione della sesta giornata mondiale della sepsi, che si celebra ogni anno il 13 settembre su iniziativa della Global Sepsis Alliance, la Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) promuove molte iniziative sul territorio italiano (disponibili sulle pagina Facebook @SIAARTI e @SEPSIRUN). Cosa provoca tale reazione non fisiologica ancora non è chiaro: si sa però che «qualunque infezione può potenzialmente dare origine a sepsi» spiega Gianpaola Monti, della Terapia Intensiva Bozza dell’Ospedale Niguarda di Milano e componente del Gruppo di Studio Sepsi ed Infezioni della SIAARTI.

La sepsi colpisce nel mondo oltre 30 milioni di persone e, secondo l’Oms, entro il 2050 causerà più decessi delle malattie oncologiche. «In Italia, l’incidenza è di una persona su mille abitanti, ma è in costante aumento a causa di vari fattori come l’invecchiamento della popolazione e i progressi della medicina che portano con sé interventi chirurgici e manovre invasive» spiega la dottoressa Monti.

Per fermare quest’emergenza, bisogna prevenire le infezioni con vaccini e misure igieniche di base e diffondere la consapevolezza di questo problema. Anche perché la tempestività è tutto: una diagnosi in ritardo può significare per il paziente una rapida evoluzione verso lo shock settico, che ha una mortalità del 70-80%. Per ogni ora di ritardo nella somministrazione della terapia antibiotica mirata, il rischio di morte cresce del 7%. «In caso di sospetta sepsi, immediatamente dopo gli esami di laboratorio, bisogna intervenire con l’antibiotico non oltre le tre ore per bloccare il proliferare dei microorganismi e supportare gli organi danneggiati – spiega la dottoressa Monti - Inoltre, se la sede dell’infezione lo consente, bisogna eradicarla entro 6-12 ore».

I più a rischio sono i pazienti cronici e gli immunodepressi, ma oggi si sa che esiste anche una vulnerabilità genetica e che chi è sopravvissuto a una sepsi ha un aumentato rischio nei due anni successivi.

«Particolare attenzione andrebbe posta alle donne in gravidanza, popolazione tecnicamente non a rischio ma in cui la spesi ha un’alta mortalità e la diagnosi molto complicata» sottolinea Gianpaola Monti, tra le curatrici delle «Linee di indirizzo clinico-organizzative per la prevenzione delle complicanze in gravidanza» redatte nel 2017. La sepsi, infatti, continua a essere una delle cause principali di mortalità materna e neonatale, anche nel nostro paese dove ogni anno si verificano dalle 450 alle 700 mila infezioni in pazienti ricoverati in ospedale.

Molti gli anelli deboli che fanno della sepsi un killer così temibile: l’aumento della farmacoresistenza, che toglie ai clinici le loro uniche armi, gli antibiotici, ma anche la scarsa formazione del personale sanitario e il mancato controllo delle infezioni ospedaliere. «Sulle buone pratiche e i protocolli di gestione dei presidi medici, come i cateteri, la SIAARTI è al lavoro da tempo» commenta la dottoressa Monti.

«Servono protocolli di diagnosi e trattamento della sepsi, di cui finora si sono dotate solamente alcune regioni come la Lombardia, dove l’80% del personale sanitario ha beneficiato di una formazione specifica, e la Toscana».

Intanto, mentre i clinici si organizzano, prosegue lo studio dei meccanismi fisiopatologici di questa anomala risposta immunitaria per trovare nuove soluzioni efficaci.