L’ottimismo è davvero il profumo della vita, come recitava il tormentone di Tonino Guerra? Pare di no, almeno secondo i parametri dell’addestramento survivalistico. In questo secondo appuntamento dedicato alla sopravvivenza, approfondiremo altre strategie psicologiche suggerite dall’esperto Fabrizio Nannini. Anche se non siamo stati paracadutati nel mezzo della foresta amazzonica, questi spunti di riflessione possono tornare utili mutuati nella vita di tutti i giorni che non sempre scorre facilmente e senza difficoltà.

Abbiamo già visto, ad esempio, come saper accettare una dura realtà senza «rimuovere» il cambiamento (per quanto catastrofico) sia la base per poter adattarsi e sopravvivere passando poi, decisamente, all’azione. In questa fase «proattiva», si rivelano fondamentali l’autocontrollo emotivo, il saper escogitare soluzioni il più possibile semplici e la capacità di non procrastinare l’intervento su problemi che potrebbero aggravarsi in modo irreversibile.

Tornando all’ottimismo, si potrebbe ritenere, di primo acchito, che questo atteggiamento psicologico possa essere d’aiuto in una situazione di crisi. Nient’affatto: oltre al conoscere la situazione intorno a sé, il survivor non deve prendere mai decisioni secondo le proprie aspettative o speranze (errore comunissimo) ma in base ai dati che ha raccolto e interpretato in maniera fredda e neutrale.

Negli ultimi decenni, l’influsso di alcune tendenze «New age» ha introdotto l’ottimismo nella mentalità collettiva come ingrediente base di una più vasta cultura del «pensiero positivo». Purtroppo, in una situazione difficile dove è in ballo la sopravvivenza, non c’è spazio per filtri cognitivi che alterino la percezione della realtà, e di conseguenza l’efficacia della risposta. Il survivor non deve quindi nutrire idee preconcette né affidarsi alla speranza illusoria come strumento per ottenere il successo.

Una scena del film Cast Away con Tom Hanks

In quest’ottica di rapporto doverosamente disincantato con la realtà rientra un’altra dote fondamentale, rara e difficile da ottenere: la capacità di riconoscere i propri limiti.

Il survivor preparato sa esattamente quanto vale, conosce i propri livelli di sopportazione fisica, emotiva e psicologica. Sa per quanto tempo e a che passo può camminare per cercare aiuto; per quanti giorni può reggere emotivamente e fino a dove può spingersi eticamente pur di salvare la sua vita o quella di altri nel gruppo. E’ facilissimo sopravvalutarsi, formandosi un’immagine di sé non corrispondente alla realtà, forse più rassicurante, inevitabilmente narcisistica, ma troppo ottimista ed irreale. Tuttavia, è anche facile sottovalutarsi: spesso in situazioni estreme possiamo attingere a delle risorse di gran lunga superiori a quelle che immaginiamo di avere.

Un’imprecisa valutazione di se stessi può condurre ad errori, è vero, ma, dopotutto, un survivor è un essere umano e come tale può commettere un passo falso. La differenza è che egli utilizza attivamente i propri sbagli: li analizza e riesce ad aggiustare il tiro per il tentativo successivo. È un meccanismo di riscontro importantissimo, perché consente un apprendimento efficace sia in caso di successo, che in caso di fallimento. Le esperienze negative possono essere formative quanto quelle positive se non di più, se vengono utilizzate in maniera corretta. E’ importante non farsi deprimere da un insuccesso, sapendo che raramente la via giusta è la prima ad essere intrapresa.

Una immagine della celebre tragedia sulle Ande del 1972

Meno facile da digerire è un’altra dura legge della sopravvivenza. Un survivor ragiona meno in termini morali e più in termini pragmatici: se deve sacrificare una persona per salvarne dieci, non ci pensa su due volte, quando questa è l’unica soluzione. Vedendo le cose in maniera più chiara delle altre persone che lo circondano, ricorre a tutto pur di agire per il bene comune, per la sopravvivenza sua e dei suoi compagni.

Strettamente collegata alla lucidità di visione è una delle ultime (ma non la meno importante) risorse mentali: la capacità di leadership.

A differenza di altri, il survivor può spiegare ai suoi compagni che cosa sta succedendo, verso dove si potrebbe andare e motiva le persone alla coesione, a collaborare ed a fornire un aiuto in base alle proprie capacità. Incentiva i più deboli del gruppo, ripartendo i compiti e i ruoli in maniera adeguata. Trovando uno scopo ed una identità di gruppo alle persone, le motiva enormemente ad agire, attività che porta ad accettare implicitamente il nuovo cambiamento di situazione.

Un leader è, ad esempio, quello che dopo un disastro aereo raduna tutti i sopravvissuti e chiede ad ognuno di esporre le proprie competenze, perché sa che tra di loro ci potrebbe essere probabilmente qualcuno in grado di aiutare il gruppo, come magari un medico per curare i feriti o un esperto di elettronica, per riparare la radio di bordo e chiamare i soccorsi. Sembra scontato, ma dopo una tragedia raramente ci si chiede con chi si è, perché si è troppo presi a pensare a se stessi in termini totalmente individuali. In un gruppo, gestire, utilizzare e condividere le professionalità o le competenze presenti, è fondamentale.

Basti ricordare il ruolo da leader svolto da Fernando Parrado e Roberto Canessa durante il famoso incidente aereo sulle Ande del 1972 durante il quale i sopravvissuti furono costretti a cibarsi dei loro compagni morti. Come spiegò nel 2002 Carlos Paez, allora il più giovane del gruppo: «Sopravvivemmo perché c'erano dei leader tra noi che decisero come potevamo salvarci e lo imposero agli altri. Eravamo tutti ragazzini capricciosi e benestanti costretti a sopravvivere in una situazione estrema».

Nel prossimo appuntamento dedicato a questo tema, scopriremo le storie di altri personaggi italiani e stranieri che sono riusciti a salvarsi in singoli episodi drammatici o nell’arco di interi decenni vissuti sul filo del rasoio.

Leggi anche: SCUOLA DI SOPRAVVIVENZA IN KENYA