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Fermi in un letto d’ospedale, per giorni e giorni. E il rischio che si formino coaguli di sangue nelle vene, di solito delle gambe, sale. La trombosi venosa profonda è molto temuta durante i ricoveri, perché i coaguli poi possono staccarsi e andare fin nei polmoni, provocando una grave embolia. Secondo gli ultimi dati disponibili, nei pazienti ricoverati il pericolo di sviluppare eventi trombo-embolici aumenterebbe di ben otto volte. E così, per minimizzare l’impatto di questa eventualità, da venti anni ai degenti si prescrivono terapie anticoagulanti. Un modus operandi che potrebbe però presto mutare. Uno studio italiano ha infatti appena valutato come «inutile» questa precauzione, considerando peraltro il rischio di esporre il paziente a un effetto collaterale potenzialmente grave, come un’emorragia.

Quando è necessaria la terapia anticoagulante?

Sono queste le conclusioni della ricerca pubblicata sulla rivista «Mayo Clinic Proceedings» , secondo cui la probabilità che in un paziente ricoverato per dieci giorni si verifichi una trombosi venosa profonda è pari appena allo 0,25 per cento. L’indicazione, sulla base dei risultati del lavoro (a cui hanno preso parte 1.170 pazienti ricoverati per malattie acute in otto ospedali universitari italiani), deve invece essere rispettata soltanto in una circostanza: quando il paziente arriva in ospedale già con una trombosi, non sintomatica ma diagnosticabile. In questi casi, «la terapia anticoagulante è molto importante, perché può realmente impedire un peggioramento o un evento grave come l’embolia polmonare», per dirla con Francesco Violi, ordinario di medicina interna all’Università La Sapienza di Roma e coordinatore della ricerca.

Più cautele con i malati cronici

È opportuno focalizzare gli sforzi di diagnosi al momento dell’ammissione in ospedale, eseguendo l’ecocolordoppler degli arti inferiori (un esame che permette di monitorare le condizioni dei principali vasi sanguigni), anziché prescrivere terapie anticoagulanti a tappeto a tutti i pazienti. Una precauzione, quest’ultima, che oltre a essere inutile grava sulla spesa sanitaria: rappresentando il 4,5 per cento dei costi totali di ospedalizzazione, con un costo medio di 373 euro per paziente. I pazienti sono stati sottoposti a ecografie delle gambe per la diagnosi di trombosi venosa profonda al momento del ricovero e alla dimissione dall’ospedale. Da qui è stato possibile dimostrare che «chi viene ricoverato per una malattia acuta, quasi mai sviluppa una trombosi venosa profonda - prosegue Violi -. Nel nostro caso questo è accaduto in appena tre pazienti, di cui due già in terapia anticoagulante al momento dell’ingresso in reparto. Va posta maggiore attenzione ai più anziani che accedono in ospedale avendo spesso anche altre malattie croniche: come il diabete, l’insufficienza cardiaca o respiratoria. Solo in questi casi è necessario prevedere una terapia anticoagulante durante il ricovero».

Questo dimostra che il tasso di sviluppo della trombosi venosa profonda durante la degenza è pressoché nullo e che la terapia profilattica a tappeto non è necessaria.

Trombosi: più a rischio i malati di cancro

La trombosi venosa profonda è una condizione determinata dalla formazione di coagulo di sangue nelle vene delle gambe, che può dare origine a un’embolia polmonare. Si tratta della terza malattia cardiovascolare più comune dopo infarto e ictus. In Italia ogni anno si registrano all’incirca 120mila nuovi casi: uno su sei riguarda un paziente oncologico. La correlazione, che è seria, frequente e potenzialmente fatale, risulta spesso ignorata o sottovalutata dai pazienti stessi, non sono sempre adeguatamente preparati dagli specialisti ad affrontarla. Il rischio è maggiore nei primi mesi fino a due anni dopo la diagnosi, ma persiste anche successivamente. A ciò occorre aggiungere che i pazientioncologici in trattamento per la trombosi hanno sopravvivenza minore, prognosi peggiore e costi sanitari più elevati rispetto a coloro che non soffrono di eventi tromboembolici.

Twitter @fabioditodaro

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