La realizzazione del sogno di Roma capitale, il 20 settembre 1870 fu una delle tappe più significative dell’Unificazione Nazionale iniziata in epoca risorgimentale con l’epopea garibaldina e definitivamente compiuta con l’annessione della Venezia Giulia e del Trentino dopo la Grande Guerra.
La Presa di Porta Pia, di cui quest’anno ricorre il 150° anniversario, se dal punto di vista politico ricoprì un’enorme rilevanza, da quello militare non ebbe un analogo rilievo, soprattutto per la grande sproporzione delle forze: il Regno d’Italia mise in campo circa 70.000 uomini contro i circa 13.000 papalini in modo da scoraggiare sul nascere qualsiasi tentativo di seria resistenza da parte di Roma.
L’esercito pontificio e soprattutto il Corpo degli Zuavi (volontari stranieri al servizio del papa almeno dal 1860) avrebbero però venduto molto cara la pelle se non fosse stato per gli espliciti ordini del Pontefice Pio IX di arrendersi quasi subito dopo l’entrata degli italiani in Roma: un bagno di sangue non sarebbe stato “cristiano” e il papa intendeva resistere quel tanto che bastava solo per sottolineare la prevaricazione subìta.
Per quanto la Presa di Porta Pia sia stata, quindi, una battaglia “di bandiera”, vi furono, comunque morti e feriti da ambo gli schieramenti. Racconta Edmondo De Amicis, che si trovava come giornalista “embedded” al seguito delle truppe sabaude: “Da una parte della strada si prestavano i primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti: uno dei quali, seduto in terra, pallidissimo, si premeva una mano sul fianco: gli altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto valorosamente sulla breccia il maggiore dei bersaglieri Pagliari, comandante del 35.° Vedemmo parecchi ufficiali dei bersaglieri con le mani fasciate”.
Per l’intera campagna del 1870, da parte del Regio Esercito, caddero in combattimento 48 uomini (3 Ufficiali e 45 di Truppa), i feriti complessivamente furono 143. L’esercito pontificio lamentò 19 morti e 68 feriti.
Bisogna ricordare che nelle guerre fra ‘800 e ‘900, solo una piccola percentuale dei soldati veniva uccisa direttamente dalle granate e dai colpi di arma da fuoco o di arma bianca. La stragrande maggioranza dei decessi avveniva soprattutto per le infezioni: tetano, setticemia, cancrena falcidiavano i feriti in un’epoca in cui la penicillina era ancora di là da venire.
La Rivista Militare, periodico dell’Esercito in edicola fin dal 1856, ci offre in anteprima sul numero di settembre le notizie tratte da un raro volume del 1871: “Resoconto del servizio di ambulanza nell’ospedale pontificio” del dottor Alessandro Ceccarelli, direttore delle ambulanze e chirurgo-capo pontificio. Il libro offre un panorama sulla chirurgia di guerra dell’epoca.
Si evince come le innovazioni tecnologiche delle armi avessero comportato maggiori e più gravi ferite rispetto al passato. Il fatto che le munizioni d’artiglieria fossero in gran parte esplodenti produceva molte lesioni da scheggia e pericolosissimi erano i proiettili di rimbalzo delle armi leggere: “Sebbene il combattimento non avvenisse a campo aperto, pure si verificò un maggior numero di ferite dell'estremità inferiori in confronto alle superiori”.
Le pallottole di tipo Minié, di forma ogivale con alette, creavano ferite più gravi rispetto a quelle sferiche più antiche: “Ai nuovi proiettili nulla resiste, le fratture e le ferite penetranti sono frequentissime: e quali fratture, e quali lesioni di visceri!”. Sappiamo che le ferite venivano lavate con acqua fenicata, ovvero addizionata ad acido fenico.
Nel 1867, vi era stata una svolta nella storia sanitaria con la messa a punto del metodo antisettico da parte del medico inglese Joseph Lister il quale aveva intuito, sull’onda delle scoperte di Pasteur, l’importanza di disinfettare le ferite e gli strumenti chirurgici. A tale scopo, aveva elaborato una soluzione di acido fenico che, tuttavia, risultava abbastanza irritante e tossica per il corpo umano.
(Uno sviluppo fondamentale di tale disinfettante sarà costituito nel 1907 dalla nuova soluzione del medico italiano Antonio Grossich: la tintura di iodio.
Le ferite venivano poi occluse con stoppa cardata – una sorta di ovatta - e anch’essa disinfettata con acido fenico. Le contusioni e gli ematomi venivano trattati con ghiaccio raccolto in sacchetti di carta “pergamenata”. Le febbri da infezione erano curate col solfato di chinina, a volte si praticavano iniezioni di ammoniaca per stimolare il cuore, ma pare che questo rimedio avesse effetti di breve durata. Per facilitare il riposo del paziente venivano somministrati degli oppiacei, come si era già sperimentato durante la Guerra Civile americana. Gli infettati venivano tenuti separati dagli altri degenti.
Gli ospedali militari pontifici erano tenuti con molta cura e un notevole investimento economico, anche perché i volontari che formavano i reparti di élite, come gli Zuavi, ad esempio, provenivano spesso dalla nobiltà o comunque da classi agiate.
Le amputazioni erano prassi ordinaria.
Sono giunte fino a noi antiche fotografie di quei mutilati: giovani senza una gamba o con una manica ripiegata sulla spallina nel cui sguardo fiero, pure, non si scorgeva traccia di autocommiserazione. Fossero italiani o pontifici, almeno esteriormente si percepisce, nelle loro espressioni, la fierezza di aver dato il loro sangue per l’Italia unita o per difendere il Vicario di Cristo.
La realizzazione del sogno di Roma capitale, il 20 settembre 1870 fu una delle tappe più significative dell’Unificazione Nazionale iniziata in epoca risorgimentale con l’epopea garibaldina e definitivamente compiuta con l’annessione della Venezia Giulia e del Trentino dopo la Grande Guerra.
La Presa di Porta Pia, di cui quest’anno ricorre il 150° anniversario, se dal punto di vista politico ricoprì un’enorme rilevanza, da quello militare non ebbe un analogo rilievo, soprattutto per la grande sproporzione delle forze: il Regno d’Italia mise in campo circa 70.000 uomini contro i circa 13.000 papalini in modo da scoraggiare sul nascere qualsiasi tentativo di seria resistenza da parte di Roma.
L’esercito pontificio e soprattutto il Corpo degli Zuavi (volontari stranieri al servizio del papa almeno dal 1860) avrebbero però venduto molto cara la pelle se non fosse stato per gli espliciti ordini del Pontefice Pio IX di arrendersi quasi subito dopo l’entrata degli italiani in Roma: un bagno di sangue non sarebbe stato “cristiano” e il papa intendeva resistere quel tanto che bastava solo per sottolineare la prevaricazione subìta.
Per quanto la Presa di Porta Pia sia stata, quindi, una battaglia “di bandiera”, vi furono, comunque morti e feriti da ambo gli schieramenti. Racconta Edmondo De Amicis, che si trovava come giornalista “embedded” al seguito delle truppe sabaude: “Da una parte della strada si prestavano i primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti: uno dei quali, seduto in terra, pallidissimo, si premeva una mano sul fianco: gli altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto valorosamente sulla breccia il maggiore dei bersaglieri Pagliari, comandante del 35.° Vedemmo parecchi ufficiali dei bersaglieri con le mani fasciate”.
Per l’intera campagna del 1870, da parte del Regio Esercito, caddero in combattimento 48 uomini (3 Ufficiali e 45 di Truppa), i feriti complessivamente furono 143. L’esercito pontificio lamentò 19 morti e 68 feriti.
Bisogna ricordare che nelle guerre fra ‘800 e ‘900, solo una piccola percentuale dei soldati veniva uccisa direttamente dalle granate e dai colpi di arma da fuoco o di arma bianca. La stragrande maggioranza dei decessi avveniva soprattutto per le infezioni: tetano, setticemia, cancrena falcidiavano i feriti in un’epoca in cui la penicillina era ancora di là da venire.
La Rivista Militare, periodico dell’Esercito in edicola fin dal 1856, ci offre in anteprima sul numero di settembre le notizie tratte da un raro volume del 1871: “Resoconto del servizio di ambulanza nell’ospedale pontificio” del dottor Alessandro Ceccarelli, direttore delle ambulanze e chirurgo-capo pontificio. Il libro offre un panorama sulla chirurgia di guerra dell’epoca.
Si evince come le innovazioni tecnologiche delle armi avessero comportato maggiori e più gravi ferite rispetto al passato. Il fatto che le munizioni d’artiglieria fossero in gran parte esplodenti produceva molte lesioni da scheggia e pericolosissimi erano i proiettili di rimbalzo delle armi leggere: “Sebbene il combattimento non avvenisse a campo aperto, pure si verificò un maggior numero di ferite dell'estremità inferiori in confronto alle superiori”.
Le pallottole di tipo Minié, di forma ogivale con alette, creavano ferite più gravi rispetto a quelle sferiche più antiche: “Ai nuovi proiettili nulla resiste, le fratture e le ferite penetranti sono frequentissime: e quali fratture, e quali lesioni di visceri!”. Sappiamo che le ferite venivano lavate con acqua fenicata, ovvero addizionata ad acido fenico.
Nel 1867, vi era stata una svolta nella storia sanitaria con la messa a punto del metodo antisettico da parte del medico inglese Joseph Lister il quale aveva intuito, sull’onda delle scoperte di Pasteur, l’importanza di disinfettare le ferite e gli strumenti chirurgici. A tale scopo, aveva elaborato una soluzione di acido fenico che, tuttavia, risultava abbastanza irritante e tossica per il corpo umano.
(Uno sviluppo fondamentale di tale disinfettante sarà costituito nel 1907 dalla nuova soluzione del medico italiano Antonio Grossich: la tintura di iodio.
Le ferite venivano poi occluse con stoppa cardata – una sorta di ovatta - e anch’essa disinfettata con acido fenico. Le contusioni e gli ematomi venivano trattati con ghiaccio raccolto in sacchetti di carta “pergamenata”. Le febbri da infezione erano curate col solfato di chinina, a volte si praticavano iniezioni di ammoniaca per stimolare il cuore, ma pare che questo rimedio avesse effetti di breve durata. Per facilitare il riposo del paziente venivano somministrati degli oppiacei, come si era già sperimentato durante la Guerra Civile americana. Gli infettati venivano tenuti separati dagli altri degenti.
Gli ospedali militari pontifici erano tenuti con molta cura e un notevole investimento economico, anche perché i volontari che formavano i reparti di élite, come gli Zuavi, ad esempio, provenivano spesso dalla nobiltà o comunque da classi agiate.
Le amputazioni erano prassi ordinaria.
Sono giunte fino a noi antiche fotografie di quei mutilati: giovani senza una gamba o con una manica ripiegata sulla spallina nel cui sguardo fiero, pure, non si scorgeva traccia di autocommiserazione. Fossero italiani o pontifici, almeno esteriormente si percepisce, nelle loro espressioni, la fierezza di aver dato il loro sangue per l’Italia unita o per difendere il Vicario di Cristo.