Su un totale di poco più di cinquantamila donne che s’ammalano ogni anno, in tre casi su quattro il tumore al seno colpisce persone con più di cinquant’anni: dunque con ogni probabilità già in menopausa. Un chiaro segno che il rischio di dover curare una neoplasia cresce con il passare degli anni, ma questo non deve destare preoccupazioni aggiuntive: almeno non per le donne che sviluppano un tumore al seno duttale in situ.
Queste pazienti - colpite da una delle forme meno aggressive di tumore della mammella, che nella maggior parte dei casi non ha la caratteristica di espandersi nella ghiandola e in altri tessuti - hanno minori probabilità di sviluppare recidive e di morire a causa della malattia neoplastica.
MENO RECIDIVE SE IL TUMORE AL SENO ARRIVA IN MENOPAUSA
Il dato è emerso da una ricerca italiana presentata nel corso della conferenza europea sul tumore al seno, appena conclusosi a Barcellona. Dall’analisi retrospettiva di oltre mille casi diagnosticati tra il 1997 e il 2012 in nove centri italiani, è emerso che la chirurgia e la radioterapia del seno interessato riducono in maniera drastica il tasso di recidiva: se il tumore si è sviluppato in un dotto (e non in un lobulo della mammella) e se le sue cellule espongono i recettori sensibili agli estrogeni. «Il tumore al seno duttale in situ rappresenta circa il venti per cento dei casi di cancro della mammella - afferma Icro Meattini, radioterapista dell’azienda ospedaliero-universitaria Careggi di Firenze e coordinatore della ricerca presentata in Spagna -. Sebbene i tassi di mortalità siano molto bassi, anche in questo caso la malattia può ripresentarsi e circa la metà delle recidive risultano rappresentate da tumori invasivi.
Abbiamo voluto esaminare le donne trattate per un carcinoma al seno duttale in situ per vedere se ci fossero indizi su chi fosse maggiormente a rischio di recidiva e per comprendere i rischi e i benefici dei diversi trattamenti: ovvero la chirurgia conservativa della mammella e la radioterapia, seguiti in alcuni casi dalla terapia ormonale».
Registrando i tassi di recidiva e di sopravvivenza di tutte le pazienti a cinque e a dieci anni, gli specialisti hanno trovato che le donne che avevano ricevuto una diagnosi in post-menopausa mostravano risultati migliori per entrambi i parametri.
NECESSARIE CHIRURGIA (CONSERVATIVA) E RADIOTERAPIA
La recidiva era anche meno comune tra le pazienti over 50 con tumori che esprimevano i recettori in grado di legare gli estrogeni: responsabili della loro crescita e diffusione. Altra osservazione: la sola chirurgia in questi casi non è sufficiente, perché quando non era stato rimosso un margine più ampio di tessuto attorno a quello colpito dalla neoplasia, le recidive s’erano presentate con maggiore frequenza.
Secondo lo specialista, «i risultati di questo studio dovrebbero portare a offrire a tutte le pazienti colpite da un tumore al seno duttale in situ una rassicurazione: il rischio di ripresa della malattia è molto basso, se il trattamento prevede la chirurgia conservativa del seno seguita dalla radioterapia, con cui si riduce il rischio che la malattia riprende nello stesso seno».
Non è prevista invece la chemioterapia, nel trattamento di questi casi. «Questo lavoro fornisce una rassicurazione in più alle donne che s’ammalano di un carcinoma mammario duttale in situ: seguendo le indicazioni contenute nelle linee guida, il rischio di recidiva è molto basso», aggiunge Isabel Rubio, direttore dell’unità di senologia chirurgica all’Università di Navarra e co-presidente del congresso.
UN TUMORE SCOPERTO QUASI SEMPRE ATTRAVERSO LA MAMMOGRAFIA
Nella maggior parte dei casi, il tumore al seno duttale in situ non dà sintomi. Questi, quando compaiono, sono i seguenti: la comparsa di un nodulo, una secrezione dal capezzolo, più raramente un arrossamento dell’areola. Questo spiega perché, molto spesso, il carcinoma duttale in situ viene scoperto spesso in occasione di una mammografia. E perché, di conseguenza, risulti più diagnosticato da quando sono stati introdotti i programmi di screening mammografico. Dopo la mammografia, può essere utile eseguire una risonanza magnetica per meglio definire l’estensione delle alterazioni. In ogni caso è la biopsia a dare la conferma definitiva della diagnosi. Oltre all’esame del tessuto, è la ricerca dei recettori (ormonali, Her 2) e l’individuazione dell’indice di proliferazione ad aiutare a scegliere la terapia più appropriata. «Ora abbiamo bisogno di fare più ricerche per scoprire se i pazienti a basso rischio possono ricevere meno trattamenti e su come trattare al meglio le donne a più alto rischio - chiosa Meattini -. Nell’era della medicina di precisione, è fondamentale che ogni paziente riceva un trattamento più adatto al proprio tumore individuale e alle sue particolari caratteristiche».
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