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Il dosaggio dell’antigene prostatico specifico (Psa), accompagnato dalla visita urologica e dall’ecografia, rappresenta il «gold standard» dei controlli.

«Ciò che di fatto ogni uomo dovrebbe fare una volta ogni sei mesi o comunque entro l’anno, da quando spegne le cinquanta candeline in avanti», afferma Vincenzo Mirone, ordinario di urologia all’Università Federico II di Napoli e segretario generale della Società Italiana di Urologia, riunita per il congresso nazionale nel capoluogo partenopeo.

Ma quando il sospetto indica la possibile presenza di un tumore della prostata, malattia che ogni anno colpisce trentacinquemila italiani, da un accertamento non si può prescindere. Soltanto la biopsia della prostata è infatti in grado di dare una risposta definitiva ai dubbi dell’urologo. Stabilito il calendario dei controlli da effettuare e raggiunti tassi di guarigione prossimi al novanta per cento, la sfida degli ultimi anni è quella di rendere sempre più accurate le diagnosi. E, quando possibile, ridurre l’invasività delle procedure.

Passi in avanti per la diagnosi del tumore della prostata

D’altra parte «la biopsia della prostata non è una passeggiata», per dirla con le parole di Beppe Morgia, direttore della clinica urologica dell’Università Catania. Da qui la necessità di affinare le indagini, rendendole più tollerabili e allo stesso tempo quanto meno parimenti efficaci. L’obiettivo è anticipare i tempi della diagnosi: una neoplasia riconosciuta in fase iniziale è più semplice da curare, grazie alle numerose terapie oggi a disposizione.

«Il problema maggiore è che la qualità delle biopsie attuali non è ottimale - prosegue Mirone -. Per prelevare il tessuto ghiandolare, bisogna vedere la lesione sospetta. Ma la maggior parte degli urologi, per capire dove infilare l’ago, utilizza ancora l’ecografia, che quasi mai distingue il tessuto sano da quello malato. La biopsia viene dunque eseguita con prelievi casuali all’interno dell’organo. Questo significa che in alcuni casi si rischia di non prelevare il tessuto tumorale. Questo comporta la necessità di ripetere la biopsia: una scelta per molti di noi obbligata che si ripercuote però sul paziente, oltre che sulle casse del servizio sanitario».

Da qui l’invito a cambiare approccio, per «prendere di mira» la prostata in maniera più accurata. Risonanza magnetica, seguita da una biopsia «eco-guidata», ma in tre dimensioni: questo l’iter attualmente più accurato, secondo gli specialisti. «L’utilizzo della risonanza magnetica ci permette di ridurre il numero delle biopsie: se l’esito è negativo, non si procede al prelievo del tessuto ghiandolare - aggiunge Morgia -. Quando si riscontra un’area sospetta, invece, la risonanza risulta comunque d’aiuto nell’indicare le aree sospette su cui effettuare la biopsia. L’approccio in uso negli ultimi anni permette di integrare i risultati della risonanza magnetica con quelli forniti dall’ecografia in tre dimensioni».

Ma occorre farne un uso intelligente

Confrontando i risultati della biopsia standard con l’approccio che integra la risonanza all’ecografia in tre dimensioni, «si osservano una riduzione dei prelievi prostatici, dei «falsi negativi» (risultati di test che portano erroneamente ad accettare l’ipotesi sulla quale esso è stato condotto, ndr) e delle più comuni complicanze della biopsia transrettale: ovvero la presenza di sangue nelle urine, nel retto e nel liquido seminale e la comparsa di infezioni urinarie dovute al potenziale passaggio di germi dal retto alla prostata».

L’indagine integrata è definita dalla specialista biopsia di fusione per via dell’integrazione tra le diverse metodiche di imaging. Detto ciò, esistono delle indicazioni specifiche mirate a selezionare la popolazione di pazienti più indicata a essere seguita in questo modo. «L’utilizzo va considerato per chi deve ripetere la biopsia a seguito di un sospetto clinico che persiste dopo una biopsia negativa», chiosa Mirone.

Twitter @fabioditodaro

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