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Meno di due terzi delle donne che poi si sono scoperte ammalate, sapeva di essere a rischio. Fino a quando non lo ha scoperto: il tumore all’ovaio.

Spesso c’è anche una risposta inadeguata da parte dei medici: prova ne è l’attesa superiore a un mese affrontata da molte donne prima di giungere alla corretta diagnosi. In più l’accesso al test genetico è ancora troppo difficoltoso, anche per quelle che corrono un concreto rischio (più alto rispetto al resto della popolazione) di ammalarsi del più subdolo e aggressivo dei tumori della sfera ginecologica.

Sono poco confortanti i risultati dell’indagine condotta dalla Coalizione mondiale contro il tumore dell’ovaio, realizzata interpellando 1531 donne e 37 specialisti in 16 Paesi: tra cui l’Italia.

TUMORE ALL’OVAIO, LA POCA CONSAPEVOLEZZA METTE A RISCHIO LA VITA

Focus sulla neoplasia che fa registrare 239mila nuovi casi ogni anno, a livello globale. A oggi, meno della metà delle donne è destinata a superare i cinque anni dalla diagnosi. E una su sei, non riconoscendo in tempo la malattia, è destinata a perdere la vita in pochi mesi.

Da qui l’idea di avviare questa indagine coinvolgendo direttamente le pazienti, per avere idea del divario nelle esperienze registrate nelle diverse nazioni e provare a restringere la forbice nell’assistenza. Scontato l’obiettivo: costruire una base su cui lavorare per far crescere i tassi di sopravvivenza e migliorare la qualità di vita delle donne, considerando (pure) la ricaduta psicologica che determina la diagnosi e la rimozione chirurgica delle gonadi.

«Siamo scioccati dalla carenza di conoscenza della malattia, su scala globale - è il commento all’unisono di Annwen Jones e Neerja Bhatla, rispettivamente vicepresidente della Coalizione e presidente della Federazione Internazionale di Ginecologia e Ostetricia -. Senza un intervento volto ad aumentare la consapevolezza, difficilmente potremo ridurre il ritardo diagnostico, fondamentale per migliorare gli esiti della malattia».

Con valori compresi tra il 50 (Ungheria) e l’84 per cento (Brasile), è possibile affermare che due terzi delle pazienti interpellate (56,5 per cento il dato relativo all’Italia) non era a conoscenza della possibilità di ricevere una diagnosi di carcinoma ovarico. La poca conoscenza della malattia è alla base del ritardo diagnostico, a cui spesso contribuisce comunque una ridotta esperienza a riguardo da parte dei primi medici interpellati da una donna.

LA SITUAZIONE IN ITALIA

L’Italia, relativamente a questo punto, ha fatto emergere i risultati migliori: quasi due donne su tre (rispetto a una media del 43 per cento) hanno ricevuto una diagnosi corretta entro un mese dalla comparsa dei sintomi e dunque dal consulto del primo specialista. Ma in un caso su dieci, c’è stato anche chi ha dovuto attendere oltre un anno per ricevere la diagnosi: compromettendo di fatto irrimediabilmente le probabilità di sopravvivenza. In Germania, per esempio, la diagnosi avviene abbastanza rapidamente, ma la capacità di fornire cure adeguate non è così diffusa. Al polo opposto la Gran Bretagna, dove le diagnosi non sono spesso tempestive: ma una volta ottenute, si ha la possibilità di ricorrere alle cure più avanzate.

TEST GENETICO SALVAVITA, MA NON PER TUTTI

Dolente anche il tasto riguardante l’accesso al test genetico per valutare eventuali variazioni dei geni Brca (1 e 2) , responsabili di una quota compresa tra il 15 e il 25 per cento delle nuove diagnosi di tumore dell’ovaio. L’indagine ha svelato che il test - utile sia nelle indagini condotte sulle parenti delle persone ammalate (per prevenzione e diagnosi precoce) sia sulle stesse pazienti anche dopo la diagnosi (per mettere a punto la strategia terapeutica più opportuna) - è stato offerto a due donne su tre nel nostro Paese, che nella lista dei sette considerati si colloca nel mezzo: in coda il Giappone (9,6 per cento), in testa gli Stati Uniti (80,6 per cento).

Ciò vuol dire che, globalmente, quasi una paziente su due deve rinunciare alle cure più idonee per il proprio tumore ovarico. «In Italia l’accesso al test per le pazienti diagnosticate con tumore ovarico e per le loro parenti di primo grado dovrebbe essere un diritto garantito in modo omogeneo in tutte le Regioni, ma in molti casi non è ancora così - ammonisce Sandro Pignata, direttore della struttura complessa di oncologia medica uro-ginecologica dell’Istituto Nazionale Tumori Fondazione Pascale di Napoli -. Esistono delle raccomandazioni diffuse dalle principali società scientifiche, ma la gestione della salute su base regionale impedisce di garantire un’omogeneità nell’assistenza sanitaria. Così si ha una situazione a macchia di leopardo, con regioni che coprono la spesa per il test genetico e altre che non lo fanno, spesso per mancanza di fondi».

La comunicazione della diagnosi

Tra gli altri aspetti da migliorare, c’è quello relativo alla comunicazione della diagnosi: fondamentale, a maggior ragione per una malattia non sempre guaribile. Più della metà delle donne ammalatesi ha riferito di non aver ricevuto tutte le informazioni necessarie dall’oncologo che s’è occupato di completare l’iter diagnostico. Spiegazioni comunque spesso sommarie e frettolose, che hanno portato molte pazienti a uscire «scioccate» dal colloquio.

Nel confronto l’Italia è il Paese che ne è uscito meglio: con una paziente su tre soddisfatta del colloquio avuto con lo specialista (media dell’indagine inferiore a una su cinque). Indipendentemente dai numeri dei singoli Paesi, uno scenario di questo tipo rende pressoché obbligato il ricorso al web, per andare a caccia di quelle informazioni su cui gli specialisti avevano sorvolato. Un aspetto su cui riflettere, dal momento che spesso si dice ai pazienti (a tutti, non soltanto a chi s’ammala di tumore ovarico) di non fare troppo riferimento alla Rete, dove ci si può imbattere in informazioni parziali, se non totalmente errate.

Ma quando ci si ammala, a maggior ragione di una malattia subdola come questa, occorre tenere adeguatamente in considerazione anche le ricadute psicologiche della diagnosi, che una comunicazione sbrigativa non fa altro che accentuare.

Twitter @fabioditodaro