Tremila morti ogni anno. Poco meno di cinquemila nuove diagnosi. Sono i numeri italiani del tumore dell’ovaio, una malattia che in otto casi su dieci viene scoperta quando ha già percorso troppa strada e lascia poche opportunità di cura. Ma se finora nessun esame ha dato garanzie per essere esteso all’intera popolazione femminile (screening), c’è un’opportunità che secondo gli specialisti e le associazioni dei pazienti meriterebbe di essere diffusa almeno tra le parenti delle donne già colpite da un carcinoma ovarico o da un tumore al seno.

Si tratta del test genetico per valutare eventuali variazioni dei geni Brca (1 e 2) , responsabili di una quota compresa tra il 15 e il 25% delle nuove diagnosi di tumore dell’ovaio. L’accesso al test per le pazienti diagnosticate con tumore ovarico e per le loro parenti di primo grado dovrebbe essere un diritto garantito in modo omogeneo in tutte le Regioni italiane, secondo le Raccomandazioni delle principali Società Scientifiche. Ma in molti casi non è ancora così.

TRE PROGETTI PER MIGLIORARE L’ACCESSO AL TEST GENETICO

Nasce da questa esigenza la campagna lanciata dall’associazione di pazienti Acto Onlus, dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute delle Donne (Onda) e dall’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari dell’università Cattolica (Altems), che reclamano la necessità di riconoscere in tutta Italia l’accessibilità al test genetico per la diagnosi precoce del tumore ovarico, in modo da individuare le terapie personalizzate più appropriate, sia per la prevenzione dei loro famigliari. Perché, per dirla con le parole di Nicoletta Colombo, direttore del programma di ginecologia oncologica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, «non è più accettabile che in un ambulatorio di oncologia entrino una madre e la sua giovane figlia con tre tumori in due che si potevano prevenire se si fosse fatto un semplice prelievo di sangue per il test genetico Brca, del quale non erano informate nonostante la loro storia».

Cita un caso realmente accaduto la specialista, per spiegare quanto importante sia il rischio iscritto nei geni per questa malattia. Le mutazioni dei geni Brca aumentano infatti del 46 per cento il rischio di sviluppare il carcinoma ovarico. Da qui la volontà di lanciare tre progetti per diffondere la conoscenza e soprattutto l’accessibilità al test genetico.

SITUAZIONE MIGLIORE AL NORD, MA LA LOMBARDIA E’ INDIETRO

La prima iniziativa, voluta da Acto Onlus, è una campagna informativa, resa virale grazie al contributo dei social network: «Io scelgo di sapere» il suo nome. Spiega Nicoletta Cerana, presidente dell’associazione: «Secondo una nostra indagine circa il 60 per cento delle italiane non conosce questa malattia e il 75 per cento il test Brca», la cui importanza è oggi riconosciuta dalle principali società scientifiche italiane, europee e statunitensi. Eppure l’offerta non è analoga in tutte le regioni. Primeggiano Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Toscana e Veneto, mentre è indietro la Lombardia, «che riconosce il test soltanto a determinate condizioni».

Disomogeneità e ostacoli che punta ad accertare Onda, «per scattare una fotografia puntuale dei test genetici in Italia», dichiara la presidente Francesca Merzagora. Di mezzo ci sono anche i conti, la cui quadratura è sempre più complessa. A questo aspetto guarda l’Altems, che punta a valutare la sostenibilità dell’esame, se garantito a tutte le parenti delle donne che hanno già scoperto di avere un carcinoma ovarico. «È essenziale far comprendere alle pazienti che sapere di essere portatrici della mutazione genetica Brca, oltre a permettere la scelta del trattamento più adatto, può aprire all’interno della propria famiglia un percorso utile - aggiunge Stefania Gori, direttore dell’unità di oncologia medica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona) e presidente eletto dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) -. Così si può arrivare all’identificazione di familiari sane che potrebbero intraprendere percorsi di sorveglianza attiva o di chirurgia profilattica, evitando così di ammalarsi di tumore».

Twitter @fabioditodaro


Alcuni diritti riservati.

vai all'articolo originale >>