Il problema esiste: in Italia riguarda un bambino su cinque. Ma piuttosto che nascondersi dietro alla possibilità che svanisca con il passare degli anni, cosa non sempre vera, vale la pena affrontarlo fin da subito: perché venirne a capo è possibile.

L’enuresi, nome con cui si identifica l’abitudine dei bambini di fare pipì nel letto durante la notte, riguarda quasi due milioni di italiani: 1,2 sono bambini, l’altra quota è rappresentata dagli adulti (settecentomila). Persone divenute grandi portandosi dietro il problema, che avrebbe potuto essere risolto se fosse stato affrontato a tempo debito. Inevitabili le ripercussioni psicologiche, di impatto tanto minore quanto più precoce è la diagnosi.

Si può parlare di enuresi non prima dei 5 anni

«L’enuresi è un disturbo ancora non adeguatamente compreso e riconosciuto - afferma Giuseppe Di Mauro, presidente della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps) -. Nonostante una diffusione elevata, il problema è sottostimato. Il ruolo delle famiglie e della scuola è fondamentale per la vigilanza. L’intervento del pediatra può essere risolutivo dopo i cinque anni, quando con poche domande si può capire se il bambino che si ha di fronte necessiti di interventi adeguati».

L’approccio all’enuresi - determinata da una triade di fattori: la carenza dell’ormone antidiuretico (Adh), l’iperattività del muscolo detrusore della vescica e la difficoltà nel risveglio - può essere esemplificato in tre fasi: togliendo innanzitutto al bambino ogni senso di colpa, spiegandogli che si tratta di una condizione frequente ed esprimergli comprensione nei confronti del suo disagio, parlando del problema con il pediatra.

Le forme non complicate (in cui l’unico sintomo è legato alla perdita notturna di pipì) devono essere trattate dal pediatra di famiglia, mentre soltanto i casi complessi meritano di essere posti all’attenzione dell’urologo pediatra. La soglia dei cinque anni è determinante, perché prima in realtà non può essere formulata una diagnosi di enuresi. A fare pipì infatti si impara, come a masticare e a deglutire. Motivo per cui gli episodi sporadici del primo quinquennio di vita non possono essere riconducibili al disturbo. Diverso è se si ripetono dopo, con discreta frequenza, e se sono accompagnati da poche richieste da parte del bambino di urinare durante il giorno.

Come rieducare i bambini?

Gli specialisti precisano che non è corretto parlare di malattia, bensì di disturbo. L’enuresi notturna compromette seriamente l’autostima del bambino ed è motivo di frustrazione in ambito familiare. L’informazione circa questo disturbo è dunque fondamentale, affinché i genitori possano averne reale consapevolezza, superando alcuni preconcetti che spesso li portano a sottovalutare il disturbo o a non dichiararlo per un ingiustificato senso di vergogna. Il problema va affrontato per tempo: sia per risolverlo quanto prima sia per evitare inutili ripercussioni psicologiche e sul sonno dei più piccoli. Poi possono essere utili anche alcuni consigli: come quello di non far bere troppo un bambino nelle ore che precedono il riposo e di non mettere a tavola per cena alimenti troppo ricchi di sodio e calcio.

Soltanto se il disturbo non dovesse passare nemmeno seguendo queste indicazioni, dopo i cinque anni il pediatra è tenuto a prospettare anche una terapia farmacologica: a base di desmopressina, una molecola che incrementa l’attività antidiuretica. Il medicinale si assume in forma sublinguale, ma nelle due ore precedenti occorre limitare al minimo l’introduzione di liquidi da parte del bambino. La terapia va seguita per almeno due mesi e poi ridotta in maniera graduale, fino alla sospensione.

Twitter @fabioditodaro


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