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«Quello che succede è che stanno arrivando gli under 50. Noi urologi stiamo intercettando sempre più giovani con carcinoma della prostata. È facile oggi trovare casi anche in uomini di 45-50 anni. E quasi sempre vediamo che c'è una familiarità, quindi va riservata una certa attenzione a questo aspetto». Nel mese di “Movember” la campagna internazionale di sensibilizzazione rivolta a lui, Vincenzo Mirone, segretario generale della Società italiana di urologia, direttore del Dipartimento di urologia all'università Federico II di Napoli, lancia un appello «senza età» per la prevenzione oncologica.

L'esperto, in occasione di un evento sul tumore alla prostata, promosso a Milano dalla Siu con il contributo incondizionato di Janssen Oncology per presentare un'indagine su pazienti e urologi, invita gli uomini a non fuggire i controlli, ma anche a riservare una certa attenzione a quel che succede dentro la propria famiglia.
«Informarsi sulla presenza di casi di cancro è importante. Spesso i tumori che diagnostichiamo negli under 50 sono molto aggressivi da un punto di vista istologico», come succede di frequente anche all'altra metà del cielo, «quando il tumore al seno irrompe nella vita di una ragazza all'età di 30-40 anni».

La morale? «Vogliamo provare a dare un messaggio agli uomini senza spaventarli. Perché il maschio non è come la donna, che non si spaventa e va subito dal ginecologo a fare i suoi controlli. Il messaggio per lui è che almeno un dosaggio del Psa e una visita urologica dopo i 40 anni vanno fatti. La strategia corretta per fare una diagnosi precoce è Psa, esplorazione digito-rettale ed ecografia», elenca l'urologo.
«Bisogna cominciare presto - incalza Mirone - e soprattutto non tralasciare un'indagine sulla familiarità: chiedere al
nonno, per esempio, se ricorda di casi» di cancro fra i parenti, «per riuscire a fotografare la situazione almeno delle ultime 3-4 generazioni. Va guardata anche la parte femminile della famiglia, perché ci sono in particolare alcuni geni importantissimi che si incrociano e incidono sia sul tumore al seno che su quello alla prostata».

La ragione di un appello all'universo maschile è nei numeri. I dati sulla tendenza degli uomini italiani a seguire programmi di prevenzione corretti per il tumore prostatico, osserva Paolo Verze, membro del Comitato scientifico della Fondazione Pro e ricercatore di urologia dell'università Federico II di Napoli, «non sono proprio confortanti. Una recente ricerca condotta dalla Fondazione su circa 2.500 uomini provenienti da regioni dell'Italia meridionale, e
pubblicata su una rivista internazionale, ha dimostrato che la gran parte dei soggetti effettua semplicemente controlli periodici del Psa, senza però ricorrere a una visita specialistica o ad approfondimenti diagnostici».

Altro dato «preoccupante - continua Verze - è che circa l'80% del campione era venuto a conoscenza dell'importanza della prevenzione del tumore della prostata grazie a campagne di informazione via web o tv,
mentre solo il 18% era stato sollecitato dal proprio medico di fiducia». L'uomo, aggiunge Mirone, «è complesso e un percorso su misura per lui non è così semplice. Il messaggio anglosassone sulla prevenzione va personalizzato di più per il Sud Europa, per Paesi come Italia, Spagna, Grecia. Forse bisogna traslarlo in una lingua più mediterranea. Se ci si concentra solo sul cancro alla prostata, non funziona».

«Quando una bambina ha il menarca, viene presa per mano dalla mamma e portata dal ginecologo - riflette ancora Mirone - Invece con il maschio spesso capita che il papà abbia vergogna e ritrosia a parlare di argomenti intimi. E gli specialisti si ritrovano magari a 45 anni pazienti che non hanno mai iniziato un percorso e alle spalle hanno un black out di 25 anni. Bisogna quindi costruire una cultura della salute in generale, portare il ragazzo e poi l'uomo
dentro un percorso che affronta vari ambiti, dagli stili di vita agli aspetti legati alla salute sessuale, per poi arrivare alla prostata».

«Il maschio - dice Verze - è bloccato da tabù. La visita specialistica viene vista da quasi tutti come una violazione della mascolinità. Mentre coloro che l'hanno fatta dopo dicono che è necessaria». Anche la lunga esperienza di Ettore Fumagalli, past president di Europa Uomo, conferma la presenza di un muro alzato dalla diffidenza
maschile. «Ci siamo impegnati tanto per spingere gli uomini italiani a parlare prima di tutto con il loro medico di famiglia - afferma - In Nord Europa è diverso. Qui c'è un senso di machismo che impedisce di aprirsi su problematiche che hanno a che fare anche con la sfera sessuale. Quando agli inizi della mia esperienza con l'associazione ho provato a trovare fra le mie conoscenze qualcuno interessato a collaborare, la prima reazione che ottenevo era che il mio interlocutore faceva gli scongiuri. Ci sono persone che con un Psa altissimo preferiscono confidarsi con me piuttosto che correre dal medico. È su questo che bisogna lavorare: far capire al pubblico
maschile che di tumore alla prostata bisogna essere capaci di parlare come di qualsiasi altro problema».


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