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Un test del sangue per individuare la presenza di un processo neurodegenerativo in corso prima ancora della comparsa dei sintomi è qualcosa cui i ricercatori lavorano da tempo. Mettere a punto un tale strumento consentirebbe di intervenire precocemente, unico modo per arrivare forse a combattere una malattia, l’Alzheimer, per la quale non esistono cure.

Un nuovo studio, pubblicato ieri sulla rivista Nature Medicine e condotto da un team di ricercatori del German Center for Neurodegenerative Diseases e della Scuola di Medicina della Washington University a St.Louis, ha portato alla messa a punto di un test del sangue molto sensibile.

Finora, per la realizzazione di un tale strumento si era quantificata la beta amiloide, proteina neurotossica il cui accumulo da origine alle celebri placche, ottenendo risultati promettenti. Questa volta, invece, l’idea dei ricercatori è stata quella di misurare la concentrazione di un altro marcatore: i cosiddetti neurofilamenti, proteine che formano l’«impalcatura» delle cellule nervose. La loro presenza in circolo nel flusso ematico segnala un processo di neurodegenerazione e di morte cellulare in atto.

Per verificare i meccanismi in atto in un cervello ad alta probabilità di ammalarsi, i ricercatori guidati da Mathias Jucker del German Center for Neurodegenerative Diseases di Tubinga hanno studiato individui con una forma di Alzheimer di tipo ereditario dominante e a esordio precoce (prima dei 50 anni), già reclutati nel registro del consorzio internazionale Dominantly Inherited Alzheimer’s Network (Dian).

I figli di genitori con una diagnosi di questa malattia hanno il 50% di probabilità di svilupparla alla stessa età dei genitori: ciò ha consentito ai ricercatori di analizzare cosa accade nel cervello anni prima della comparsa dei sintomi.

L’analisi del sangue ha rivelato nei portatori della variante genica incriminata dei livelli di proteine più elevati e in crescita con il passare del tempo: l’accumulo di neurofilamenti inizia molto prima della comparsa dei sintomi. Nelle persone con la forma sana del gene, invece, i livelli di proteine erano bassi e stabili. Questa differenza era rilevabile già 16 anni prima che si manifestassero i sintomi cognitivi.

I dati di risonanza magnetica hanno rivelato, all’aumentare dei livelli di biomarcatore nel sangue, un corrispondente assottigliamento e restringimentodi alcune aree cerebrali. E, infine, i test cognitivi hanno rivelato un più rapido decadimento in coloro che avevano subito un rapido rialzo dei valori rapido.

In altre parole, la variazione dei neurofilamenti nel sangue correla con l’andamento clinico del paziente: più brusca l’impennata, più rapido il decadimento.

I neurofilamenti non sono marcatori specifici delle demenze, ma si trovano in circolo nel sangue di pazienti affetti da altre patologie neurodegenerative, come la Sla e il Parkinson, e si possono anche osservare immediatamente dopo un trauma cranico.

«Avere a disposizione un marcatore dinamico, in grado di predire la progressione di malattia, è cruciale e poter ricorrere a un test non invasivo, come il prelievo di sangue, invece che all’analisi del liquido cerebrospinale, sarebbe un grande passo avanti. Anche solo a supporto degli studi clinici» commenta Stefano Cappa, neurologo e direttore scientifico dell’Irccs Fatebenefratelli di Brescia.

Inoltre, «il nuovo test ora messo a punto è molto sensibile e l’idea è comunque quella di arrivare a una combinazione di biomarcatori di natura diversa che, insieme, possano predire lo sviluppo delle demenze». Il prossimo passo, spiegano gli autori del lavoro, sarà ora quello di validare questo test del sangue sulle altre forme di demenza».