Secondo una ricerca pubblicata alla fine dello scorso anno sulla rivista scientifica Jama Oncology, i casi di tumore al seno maschile sono in aumento. Di 1,9 milioni di pazienti studiati negli Usa, gli uomini presentano tassi di mortalità più elevati rispetto alle donne, soprattutto nel periodo successivo alla diagnosi.
Una disparità nella mortalità probabilmente associata ad analisi tardive e a trattamenti non adeguati. Nel 2019 sono stati stimati 500 casi totali in Italia, un dato in crescita rispetto agli anni passati. Mentre secondo i numeri del National Cancer Database, tra 2004 e 2014 nel mondo sono stati 16mila gli uomini in totale che hanno ricevuto una diagnosi di tumore al seno, dati comunque nettamente inferiori alle donne: 1,8 milioni nello stesso periodo. I pazienti maschi erano più anziani però delle donne: 63,3 anni di media contro i 59,9 femminili.
La buona notizia è che questa patologia maschile è comunque molto rara (dallo 0,6 all’1 per cento di tutti i casi di cancro al seno) e rappresenta circa lo 0,3 per cento di tutti i tumori. Ma la prevenzione e l’attenzione, quando si parla comunque di tumore, sono sempre da mantenere alte. Il direttore della Uoc di Radiodiagnostica dell’Av2 - Asur Marche, Francesco Bartelli, 56 anni, parla di questo tipo di malattia, spiegando come comportarsi in presenza di eventuali sintomi. Nella sua carriera da medico ha avuto a che fare con sei casi come questo, di cui «“almeno tre sono stati risolti con l’intervento e terapie adeguate».
Il dottor Francesco Bartelli
I pazienti a rischio
Il tumore al seno maschile è più raro «perché il tessuto ghiandolare è più ridotto rispetto a quello delle donne - spiega Bartelli -. C’è anche una minore esposizione agli estrogeni, cioè quegli ormoni sessuali protagonisti nel tumore mammario, perché nell’uomo l’effetto è bloccato dagli ormoni maschili che impediscono la crescita del seno».
Parlando dei pazienti a rischio bisogna tenere in conto due aspetti principali. Il primo è legato a quelle patologie maschili che inducono la produzione di estrogeni come l’obesità o la sindrome di Klinefelter, una malattia genetica caratterizzata dalla presenza di un cromosoma X in più capace di produrre gli ormoni sessuali. Il secondo: la familiarità, cioè famiglie con individui aventi alterazioni genetiche «predisponenti» per sviluppare un tumore mammario.
«Il 15 per cento di questi tumori, infatti, nasce in quelle famiglie nelle quali almeno tre soggetti entro il secondo grado di parentela hanno avuto questo tipo di patologia. Mentre il restante 85 è casuale», prosegue Bartelli.
Sono le cosiddette alterazioni genetiche di tipo Brca1 e Brca2, nelle quali è presente anche la componente maschile, infatti «il Brca 2 ha una maggiore incidenza negli uomini della famiglia». Purtroppo c’è un possibile aumento, in questo caso, della nascita di questi tumori in soggetti più giovani «quando normalmente questa patologia colpisce più le persone tra i 60 e i 70 anni». Restano più a rischio «quegli individui con problemi di cirrosi epatica, le persone obese o quelle con alterazioni genetiche», spiega il medico. «In una piccola percentuale dei casi può esserci un aumento del rischio anche in quei soggetti che hanno subito trattamenti radioterapici per patologie linfoproliferative toraciche, come ad esempio i linfomi».
Perché l’obesità è un rischio
L’obesità induce a una maggiore conversione di ormoni maschili in estrogeni circolanti, a causa di un enzima presente nel tessuto adiposo. L’alcool, la cirrosi epatica, gli elementi molto zuccherosi: tutti elementi dannosi. E in caso di malattia è da evitare qualsiasi farmaco a base ormonale, oltre naturalmente agli steroidi anabolizzanti per chi fa palestra.
I sintomi: come comportarsi
Per l’uomo, fortunatamente, avere una minore quantità di tessuto mammario significa che è più facile capire se c’è qualcosa di anomalo in quella parte del corpo. La possibilità «è che si formi un nodulo non dolente retroareolare, cioè dietro il capezzolo, dato che il tessuto ghiandolare è proprio lì», continua Bartelli. Avere un nodulo non dolente può portare a sottovalutare il problema «perché si pensa che non sia nulla e non si conosce la patologia, quindi non si agisce pensando che tutto si risolva da sé e in poco tempo».
Un nodulo da ginecomastia è invece, di solito, dolente. Dunque, «applicare sempre l’autopalpazione - spiega Bartelli - e se percepiamo una massa sotto alla nostra pelle, è meglio recarsi subito dal proprio medico di famiglia che prescriverà un’ecografia. Sarà il radiologo di turno a decidere se e che tipo di altro esame fare».
La diagnosi
Se il radiologo, dopo aver terminato l’esame, riscontrerà un nodulo dalle caratteristiche sospette «svolgerà un esame sul paziente per capire la presenza o meno di una patologia, eventualmente effettuando anche la mammografia (per l’identificazione di eventuali microcalcificazioni sospette), utilizzando delle procedure interventistiche come ad esempio l’esame citologico, ovvero la biopsia mammaria previa anestesia locale» spiega ancora Bartelli.
Qualora la risposta alla diagnosi sia quella di un carcinoma si invia il paziente dal chirurgo «il quale tratterà la malattia esattamente come nel caso di una mammella femminile. In alcuni casi con un intervento e poi terapie ormonali, chemio e radioterapia».
In seguito all’eventuale operazione chirurgica, si avrà una cicatrice. Per ridurre l’impatto psicologico negativo sul paziente, «si cerca in tutti i modi di eliminare il tumore risparmiando il capezzolo, per una semplice questione estetica».
Si può ricorrere anche alla via della ricostruzione dell’areola «anche se per l’uomo è più difficile dato che non ci sono protesi come quelle femminili».
I tempi delle terapie e dei controlli sono analoghi alla patologia mammaria femminile con un follow-up che dura almeno cinque anni. «Dopo tale periodo e con controlli clinici, di laboratorio e strumentali negativi - conclude Bartelli - si è molto probabilmente raggiunta la guarigione».
Secondo una ricerca pubblicata alla fine dello scorso anno sulla rivista scientifica Jama Oncology, i casi di tumore al seno maschile sono in aumento. Di 1,9 milioni di pazienti studiati negli Usa, gli uomini presentano tassi di mortalità più elevati rispetto alle donne, soprattutto nel periodo successivo alla diagnosi.
Una disparità nella mortalità probabilmente associata ad analisi tardive e a trattamenti non adeguati. Nel 2019 sono stati stimati 500 casi totali in Italia, un dato in crescita rispetto agli anni passati. Mentre secondo i numeri del National Cancer Database, tra 2004 e 2014 nel mondo sono stati 16mila gli uomini in totale che hanno ricevuto una diagnosi di tumore al seno, dati comunque nettamente inferiori alle donne: 1,8 milioni nello stesso periodo. I pazienti maschi erano più anziani però delle donne: 63,3 anni di media contro i 59,9 femminili.
La buona notizia è che questa patologia maschile è comunque molto rara (dallo 0,6 all’1 per cento di tutti i casi di cancro al seno) e rappresenta circa lo 0,3 per cento di tutti i tumori. Ma la prevenzione e l’attenzione, quando si parla comunque di tumore, sono sempre da mantenere alte. Il direttore della Uoc di Radiodiagnostica dell’Av2 - Asur Marche, Francesco Bartelli, 56 anni, parla di questo tipo di malattia, spiegando come comportarsi in presenza di eventuali sintomi. Nella sua carriera da medico ha avuto a che fare con sei casi come questo, di cui «“almeno tre sono stati risolti con l’intervento e terapie adeguate».
Il dottor Francesco Bartelli
I pazienti a rischio
Il tumore al seno maschile è più raro «perché il tessuto ghiandolare è più ridotto rispetto a quello delle donne - spiega Bartelli -. C’è anche una minore esposizione agli estrogeni, cioè quegli ormoni sessuali protagonisti nel tumore mammario, perché nell’uomo l’effetto è bloccato dagli ormoni maschili che impediscono la crescita del seno».
Parlando dei pazienti a rischio bisogna tenere in conto due aspetti principali. Il primo è legato a quelle patologie maschili che inducono la produzione di estrogeni come l’obesità o la sindrome di Klinefelter, una malattia genetica caratterizzata dalla presenza di un cromosoma X in più capace di produrre gli ormoni sessuali. Il secondo: la familiarità, cioè famiglie con individui aventi alterazioni genetiche «predisponenti» per sviluppare un tumore mammario.
«Il 15 per cento di questi tumori, infatti, nasce in quelle famiglie nelle quali almeno tre soggetti entro il secondo grado di parentela hanno avuto questo tipo di patologia. Mentre il restante 85 è casuale», prosegue Bartelli.
Sono le cosiddette alterazioni genetiche di tipo Brca1 e Brca2, nelle quali è presente anche la componente maschile, infatti «il Brca 2 ha una maggiore incidenza negli uomini della famiglia». Purtroppo c’è un possibile aumento, in questo caso, della nascita di questi tumori in soggetti più giovani «quando normalmente questa patologia colpisce più le persone tra i 60 e i 70 anni». Restano più a rischio «quegli individui con problemi di cirrosi epatica, le persone obese o quelle con alterazioni genetiche», spiega il medico. «In una piccola percentuale dei casi può esserci un aumento del rischio anche in quei soggetti che hanno subito trattamenti radioterapici per patologie linfoproliferative toraciche, come ad esempio i linfomi».
Perché l’obesità è un rischio
L’obesità induce a una maggiore conversione di ormoni maschili in estrogeni circolanti, a causa di un enzima presente nel tessuto adiposo. L’alcool, la cirrosi epatica, gli elementi molto zuccherosi: tutti elementi dannosi. E in caso di malattia è da evitare qualsiasi farmaco a base ormonale, oltre naturalmente agli steroidi anabolizzanti per chi fa palestra.
I sintomi: come comportarsi
Per l’uomo, fortunatamente, avere una minore quantità di tessuto mammario significa che è più facile capire se c’è qualcosa di anomalo in quella parte del corpo. La possibilità «è che si formi un nodulo non dolente retroareolare, cioè dietro il capezzolo, dato che il tessuto ghiandolare è proprio lì», continua Bartelli. Avere un nodulo non dolente può portare a sottovalutare il problema «perché si pensa che non sia nulla e non si conosce la patologia, quindi non si agisce pensando che tutto si risolva da sé e in poco tempo».
Un nodulo da ginecomastia è invece, di solito, dolente. Dunque, «applicare sempre l’autopalpazione - spiega Bartelli - e se percepiamo una massa sotto alla nostra pelle, è meglio recarsi subito dal proprio medico di famiglia che prescriverà un’ecografia. Sarà il radiologo di turno a decidere se e che tipo di altro esame fare».
La diagnosi
Se il radiologo, dopo aver terminato l’esame, riscontrerà un nodulo dalle caratteristiche sospette «svolgerà un esame sul paziente per capire la presenza o meno di una patologia, eventualmente effettuando anche la mammografia (per l’identificazione di eventuali microcalcificazioni sospette), utilizzando delle procedure interventistiche come ad esempio l’esame citologico, ovvero la biopsia mammaria previa anestesia locale» spiega ancora Bartelli.
Qualora la risposta alla diagnosi sia quella di un carcinoma si invia il paziente dal chirurgo «il quale tratterà la malattia esattamente come nel caso di una mammella femminile. In alcuni casi con un intervento e poi terapie ormonali, chemio e radioterapia».
In seguito all’eventuale operazione chirurgica, si avrà una cicatrice. Per ridurre l’impatto psicologico negativo sul paziente, «si cerca in tutti i modi di eliminare il tumore risparmiando il capezzolo, per una semplice questione estetica».
Si può ricorrere anche alla via della ricostruzione dell’areola «anche se per l’uomo è più difficile dato che non ci sono protesi come quelle femminili».
I tempi delle terapie e dei controlli sono analoghi alla patologia mammaria femminile con un follow-up che dura almeno cinque anni. «Dopo tale periodo e con controlli clinici, di laboratorio e strumentali negativi - conclude Bartelli - si è molto probabilmente raggiunta la guarigione».