Dopo un infarto o un altro evento acuto e dopo un intervento cardiochirurgico, la cura del paziente cardiologico non dovrebbe arrestarsi con il ritorno a casa. Tutti andrebbero indirizzati un percorso di prevenzione secondaria e di recupero funzionale, la cosiddetta cardiologia riabilitativa.
Tali programmi strutturati, infatti, sono in grado di ridurre il rischio di riospedalizzazione e di morte del 30%, oltre che di migliorare l’aderenza alle terapia e la qualità di vita. Eppure in Italia solo un paziente su tre ne può beneficiare, nonostante questi programmi siano rimborsati perché inclusi nei LEA. L’appello alla necessità di cambiare le cose viene dalla Società italiana di prevenzione, riabilitazione ed epidemiologia cardiovascolare GICR-IACPR che, in occasione del congresso nazionale a Genova, ha presentato un position paper che traccia obiettivi e criticità di una disciplina spesso sottovalutata.
Il documento indica la strada da seguire per aumentare l’accesso a questi programmi che si situano a valle dell’intervento acuto, ma in stretta continuità con esso, e si occupano della ripresa funzionale del paziente, del suo monitoraggio, della sua educazione sanitaria, dell’adeguamento degli stili di vita alla nuova condizione. Non aiuta, commentano i cardiologi riuniti a congresso, il fatto che a questa branca della cardiologia non venga riconosciuta la propria specificità e venga inserita nelle riabilitazioni, insieme a quella motoria e neurologica.
PERCHÉ LA CARDIOLOGIA RIABILITATIVA
«Oggi, il numero di pazienti inviati a un programma di cardiologia riabilitativa è attualmente fermo al 30% - spiega il presidente Roberto Pedretti, presidente di GICR-IACPR e direttore del dipartimento di cardiologia riabilitativa degli Istituti Clinici Scientifici Maugeri di Pavia – Significa che vi accedono meno di un paziente su tre di tutti quelli che ne avrebbero bisogno e diritto». Uno scenario piuttosto desolante. Anche per ragioni di sostenibilità economiche, visto il progressivo invecchiamento della popolazione e la crescente capacità della medicina di trattare le malattie, rendendole croniche.
La cardiologia riabilitati si impone anche perché, da un lato, la geriatrizzazione di tutta la medicina impone di porre attenzione ai pazienti fragili, con comorbidità; e, dall’altro, bisogna agire più efficacemente sugli stili di vita dei sani e dei pazienti cardiologici. Come mostra lo studio EuroAspireV, a un anno dall’evento cardiovascolare acuto il 28% dei pazienti continua a fumare e il 40% è ancora obeso. «L’attività fisica è come un farmaco salva cuore, come tale va prescritta in modo personalizzato» ricorda Pedretti, come ha mostrato anche lo studio italiano Gospel:«interventi multifattoriali, integrati e continuativi migliorano lo stile di vita e l’aderenza alle terapie tanto che riducono il rischio cardiovascolare e le recidive del 48%».
LA RIORGANIZZAZIONE NECESSARIA
In Italia, ci sono 211 strutture dedicate alla cardiologia riabilitativa, aumentate del 17% negli ultimi 10 anni: «C’è stato un recupero delle regioni del Sud che hanno superato il Centro, ma il personale dedicato sta progressivamente diminuendo – spiegato Raffaele Griffo, direttore della cardiologia della ASL3 Genovese - la maggior parte dei centri sono ancora degenziali anche se la riabilitazione ambulatoriale sta prendendo piede».
Circa l’11% dei posti letto, tuttavia, vengono utilizzati per pazienti sub-intensivi, nel periodo immediatamente successivo all’evento acuto o all’intervento chirurgico. Inoltre, puntualizza Pedretti, «la riabilitazione, che ha come obiettivo il recupero funzionale, non va confusa con la lungo degenza».
Ma può ridurre la durata del ricovero per i pazienti acuti, migliorando l’efficienza gestionale, anche se «il futuro è dei programmi ambulatoriali e, in prospettiva, domiciliari», avvalendosi di strumenti digitali (e-health), indossabili, per il monitoraggio del paziente da remoto. Tutti i pazienti sono candidabili, ad esclusione di due sole tipologie: chi aveva uno stato di deterioramento cognitivo grave pre-esistente e chi ha una compromissione tale da necessitare di cure e assistenza diverse.
GLI STUDI ITALIANI
Al congresso di Genova, sono stati presentati anche recenti dati nazionali che dimostrano l’efficacia della cardiologia riabilitativa. Come quelli della Lombardia, già presentati al congresso europeo: su 140mila dimissioni ospedaliere per scompenso cardiaco acuto, solo un terzo dei quali sono stati inviati ad un percorso di cardiologia riabilitativa ma costoro, al netto degli altri fattori, hanno avuto una riduzione del 40% dei mortalità e del 30% di ospedalizzazione.
La riabilitazione ambulatoriale dopo sindrome coronarica acuta è stata invece oggetto dell’esperienza friulana, pubblicata sullo European Heart Journal riguardante «839 pazienti sottoporti al percorso di riabilitazione ambulatoriale ideato da noi e 411 controlli, pazienti di un altro centro, l’ospedale Santa Maria degli Angeli di Pordenone» ci spiega Patrizia Maras dell’Azienda sanitaria universitaria Integrata di Trieste .«A distanza di cinque anni, la mortalità cardiovascolare e l’ospedalizzazione diminuiscono in chi segue un percorso di riabilitazione (18% contro 30%)».
La scarsa aderenza alle terapie causa in Europa 200 mila decessi. Dopo un evento cardiologico è necessario restare strettamente aderenti se si vuole favorire la corretta ripresa. Il beneficio della cardioriabilitazione sull’adesione alla terapia farmacologica nel breve termine è testimoniata da uno studio condotto sui dati amministrativi di quasi 20 mila pazienti cardiologici residenti e assistiti in Lazio.
«Solo l’8.55% è stato inserito in un percorso di riabilitazione ma in costoro l’aderenza al trattamento a 180 giorni è stato del 75%» ha spiegato il dottor Antonio Fusco. Con il passare del tempo, tuttavia, le cose cambiano: a 6 mesi l’aderenza di chi ha seguito la riabilitazione è il doppio rispetto agli altri, ritorna però uguale a un anno. Inoltre, emerge preponderante il ruolo dello specialista: non è la tipologia di infarto a determinare la probabilità di essere indirizzati alla riabilitazione ma è piuttosto l’essere andati incontro ad angioplastica coronarica: costoro non vengono riabilitati, come se l’intervento potesse essere considerato risolutivo e il paziente non bisognoso.
INDICE DI QUALITÀ DI CURA
Ad aver da tempo puntato sulla cardiologia riabilitativa sono gli Stati Uniti, consapevoli del beneficio economico e sociale derivante dal prevenire gli eventi cardiovascolari acuti e dalla prevenzione dei principali fattori di rischio cardiovascolare. L’iniziativa «Million Hearts», guidata dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) e dai Centers for Medicare & Medicaid Services (CMS), è stata lanciata nel 2012 per prevenire, come recita il nome, un milione di eventi. A cinque anni, ne sono stati prevenuti 500mila. Per far fronte alla «lentezza frustrante nel miglioramento» - come si legge su Jama del 6 settembre - è stato lanciato «Million hearts 2022», programma rafforzato che «coinvolge le società scientifiche American College of Cardiology e American Heart Association con l’obiettivo di aumentare il numero di pazienti riferiti alla rabilitazione cardiologia, indice questo - come ha spiegato il cardiologo Luigi Tavazzi - considerato indicatore di ‘qualità di cura’ e il mancato avvio del paziente cardiopatico alla riabilitazione viene calcolato come un punto di demerito».
Insomma, anche in Italia, deve essere ormai chiaro che «se il cardiologo non riferisce il malato alla cardiologia riabilitativa sta sottotrattando il paziente, come chi non dovesse prescrivere un ipertensivo a un iperteso, e lo sta esponendo a un rischio di morte e riospedalizzazione aumentato sino al 30-40%».
@nicla_panciera