Sono pazienti senza diagnosi, persone con una malattia che non ha un nome e non ha una causa. E quindi neppure la speranza di ricevere un adeguato trattamento. Secondo l’Oms, il 30% delle malattie rare – che sono tra le 7mila e le 8mila – sono senza diagnosi e senza nome. E recenti stime indicano in 27-36 milioni gli europei con una malattia genetica. Spesso sono bambini. Non sapere che cosa affligge il loro piccolo e se e come evolverà comporta un ulteriore carico di stress e sofferenza per i genitori.
DARE UN NOME ALLA MALATTIA
Di malattie senza nome e del network internazionale a loro dedicato si è parlato anche alla XIX convention scientifica di Telethon a Riva del Garda insieme ai massimi esperti italiani e non. Negli Stati Uniti, a Bethesda, c’è un Centro che raccoglie le richieste di aiuto provenienti dall’intera nazione.
Il programma UDP (malattie non diagnosticate) è guidato dal dottor William Gahl del National Human Genome Research Institute degli Istituti Nazionali di Sanità (NIH) americani e riceve richieste in arrivo da tutto il paese.
La valutazione avviene in 8-12 settimane e, nel 25-30% dei casi il paziente riceve una risposta e viene ricoverato per un’intera settimana nel corso della quale vengono effettuate tutte le indagini genetiche e funzionali possibili, al soggetto e alla famiglia. «Dal 2008 a oggi, abbiamo raccolto quattro mila cartelle cliniche, il 40% è costituito da bambini e nella maggior parte dei casi si tratta di malattie neurologiche» ha spiegato il dottor Gahl a Riva del Garda. La percentuale di casi risolti con una diagnosi clinica, molecolare o biochimica va dal 25 al 50%. Il paziente riceve dai ricercatori la speranza di una diagnosi e di una cura in cambio della cessione dei propri dati (che in questi casi è sempre bene accetta quando non attivamente sollecitata). La condivisione dei dati con la comunità scientifica e clinica internazionale è fondamentale, infatti, anche per la rarità delle condizioni.
CONDIZIONI CLINICHE MISTERIOSE
Il programma UDP si avvale delle competenze cliniche e di ricerca d’eccellenza presenti all’NIH, dall’immunologia alla cardiologia, dall’endocrinologia alla dermatologia e all’oncologia. Infatti, si tratta di pazienti con condizioni cliniche misteriose e poterli studiare per scoprire nuovi pathway biologici e cellulari è importante almeno quanto la condivisione dei dati con la comunità scientifica.
Infatti, quando esistono due, tre o cinque casi al mondo, fare rete è fondamentale: «Il poter condividere con gli specialisti di tutto il mondo le informazioni raccolte può significare la risoluzione del caso» ha spiegato Gahl. Il Programma UDP si è recentemente ampliato in una rete nazionale statunitense, Undiagnosed Diseases Network (UDN) con un totale di sette centri clinici, un centro di coordinamento, due centri di sequenziamento, un centro di analisi metabolomiche, uno per gli organismi modello ed un bio-repository. «Accettiamo applicazioni dai centri al di fuori degli Stati Uniti con cui collaboriamo – ha concluso Gahl - diffondere fenotipi e varianti geniche dei casi che studiamo può voler dire trovare un “second case”, un altro caso simile».
IL PROGRAMMA ITALIANO DI TELETHON
Oltre a Giappone, Austria, Australia e Shangai, con la rete UDN collabora anche l’Italia, dove esiste un programma per le malattie non diagnosticate, lanciato nell’aprile del 2016 dall’Istituto Telethon di Genetica e Medicina TIGEM di Pozzuoli in collaborazione al San Gerardo di Monza -Fondazione MBBM, all’Azienda Ospedaliera Universitaria “Federico II” di Napoli e al Bambino Gesù di Roma. «I pazienti con sindrome genetica non riconoscibile sono sottoposti ad una prima valutazione clinica da uno dei tre partner clinici del programma ed i casi selezionati sono poi discussi in sessioni plenarie con tutti i ricercatori del Telethon UDP» ha spiegato Vincenzo Nigro alla guida del programma pilota che nei suoi primi 10 mesi di attività ha già discusso 210 casi e sequenziato il genoma di 80 nuclei familiari.
COMBATTERE LA FRAMMENTAZIONE
Quello di queste malattie non è solo un problema scientifico, ma anche politico e organizzativo, come ha sottolineato Hanns Lochmueller, coordinatore del programma europeo RD-Connect. «La condivisione richiede infrastrutture, standard comuni, rispetto della privacy del paziente e tutele per i ricercatori, non disposti a cedere totalmente la proprietà dei dati». Bisogna rimboccarsi le maniche, ma gli strumenti ci sono. Con le parole di Gahl: «Il mio obiettivo è un database universale accessibile da ogni paese del mondo».
@nicla_panciera
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