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IN MONTAGNA DOPO L’ICTUS

Anche quando la neve si ritira, la montagna continua a essere meta di passeggiate, escursioni, vacanze. Ma chi ha avuto un ictus deve rinunciare all’alta quota? Alice Italia Onlus, l’associazione per la lotta all’ictus cerebrale, mette in guardia i pazienti: dopo un ictus la montagna non diventa un tabù, ma bisogna fare attenzione a regole precise.

«Oggi, grazie alle terapie disponibili, dopo un ictus è possibile tornare a condurre una vita normale, dopo un percorso di riabilitazione, senza dover essere costretti ad abbandonare le proprie passioni e i propri interessi» sottolinea Nicoletta Reale, presidente dell’associazione. Ma le complesse fasi del post ictus non vanno sottovalutate. E una gita in montagna non va affrontata con leggerezza.

Primo avvertimento: la riduzione della pressione atmosferica e dell’ossigeno nell’aria che respiriamo, fa sì che salire in alta quota, soprattutto per soggetti con patologie acute o croniche, debba essere un’attività da svolgere sotto il controllo medico. Perché è importante sapere come l’organismo reagisce all’alta quota per prendere le dovute precauzioni.

PIÙ SI SALE DI QUOTA, PIÙ DIMINUISCE L’OSSIGENO NELL’ARIA

Se fino a 1500-2000 metri, perlomeno in estate e con il bel tempo, non si incontrano grandi rischi, sopra i 2000, in particolare in inverno – comunica Alice Italia Onlus – ci si può imbattere in pericoli oggettivi: carenza di ossigeno, freddo, vento, valanghe.

A 2000 metri si ha una riduzione del 20% dell’ossigeno presente nell’aria, a 3000 ne manca un terzo rispetto al livello del mare, a 4800 metri (praticamente l’altezza del Monte Bianco) ne manca circa la metà. Chi non ha problemi di salute mette in campo una serie di meccanismi necessari per compensare e adattarsi alle nuove condizioni ambientali - aumentano frequenza cardiaca e respiratoria, pressione arteriosa e polmonare, il numero di globuli rossi per potenziare il trasposto di ossigeno nel sangue - ma per chi ha patologie acute o croniche la carenza di ossigeno può essere problematica. E questo è ancora più vero per chi ha avuto un ictus, e quindi ha avuto a che fare con un ridotto apporto di ossigeno al tessuto cerebrale.

CI VUOLE PAZIENZA E PRUDENZA. NON IN ALTA QUOTA NEI PRIMI TRE MESI

Alice Italia Onlus invita dunque alla prudenza e alla pazienza e consiglia di non superare i 1500 metri di altitudine nei primi tre mesi successivi all’ictus e di non andare oltre i 2000 tra il quarto e il sesto mese. Dipenderà poi da soggetto a soggetto l’opportunità o meno di pianificare gite oltre i 2000 metri trascorso questo periodo.

Molto dipende dalla stabilità del quadro clinico e dei fattori di rischio cardiovascolari. In caso di ipertensione arteriosa i valori della pressione devono essere ben controllati già a bassa quota. Così come dev’essere ben controllata la glicemia nei pazienti diabetici. I valori di colesterolo devono essere nei livelli di normalità e non bisogna fumare. E non è da sottovalutare l’aderenza scrupolosa alle terapie prescritte dal neurologo.

È comunque necessario fare una visita di controllo, per fare il punto della situazione e valutare gli eventuali rischi di un’attività fisica in montagna, perché all’organismo già indebolito dalla malattia viene richiesto uno sforzo importante di adattamento.

È fondamentale poi ricordare che la montagna va affrontata con lentezza: salendo di quota in modo graduale e, se oltre i 2500 metri, scendendo di quota per dormire rispetto all’altitudine in cui si è trascorsa la giornata.

«Tendenzialmente superare i 3500 metri rimane un discreto rischio e un traguardo impegnativo» dichiara Guido Giardini, direttore della struttura complessa Neurologia e Stroke Unit e responsabile del Centro di medicina e neurologia di montagna dell’Ospedale «U. Parini» della Valle d’Aosta. L’esperto suggerisce di «evitare le giornate molto fredde e con forte vento, dal momento che le temperature rigide possono causare vasocostrizione. Tanto più se il paziente ha una concomitante patologia ischemica cardiaca» e raccomanda «di assumere le medicine prescritte, alimentarsi e idratarsi in modo corretto e avere sempre con sé tutti gli indumenti e le attrezzature necessarie».

UN CHECK UP IN UN CENTRO DI MEDICINA DI MONTAGNA

Rivolgersi a un centro di medicina di montagna con esperienza anche nel campo delle malattie neurologiche può essere l’opzione più indicata non solo per una visita specialistica, ma anche per eseguire test specifici inerenti l’adattamento alle alte quote.

«Nei centri di medicina di montagna il paziente può eseguire esami strumentali per valutare l’attività cardiaca, la funzione dei polmoni e la saturazione di ossigeno nel sangue: ecodoppler carotideo e transcranico, elettroencefalogramma, polisonnografia, elettromiografia… E in alcuni casi anche test in ipossia o altitudine simulata» spiega Giardini. Nel corso di questo esame, che può avvenire sia a riposo che sotto sforzo, il paziente respira una concentrazione di ossigeno ridotta, come se si trovasse a una quota elevata, e vengono misurati tutti i parametri vitali cardiocircolatori e respiratori. I dati ricavati dalla visita e dagli esami, utili per comprendere la risposta all’alta quota, orientano di conseguenza i consigli dello specialista. @simona_regina

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