«Il Coronavirus? Può essere l’influenza spagnola del nostro millennio». Al di là della famiglia di appartenenza dei virus, sono in molti, negli ultimi giorni, a essersi sbilanciati paragonando l’epidemia attualmente in corso anche in Italia con quella che, tra il 1918 e il 1920, provocò oltre 100 milioni di decessi in tutto il mondo (quasi 400mila soltanto in Italia). In realtà, sebbene l’infezione che ha sorpreso il Pianeta all’inizio del 2020 sia pienamente in corso, ci sono diversi elementi che lasciano pensare a uno sviluppo diverso. E meno grave, oggi, di quanto non fu invece quella di un secolo fa, che arrivò a infettare oltre mezzo miliardo di persone.

CoVid-19: non è ancora una pandemia

Nel momento in cui scriviamo, CoVid-19 non ha ancora provocato una pandemia. Ovvero: il virus non sta ancora circolando in tutti i Paesi del mondo e c’è da augurarsi che ciò non accada. La prima differenza - sostanziale - è tutta linguistica. Per gli epidemiologi si parla di pandemia quando un agente infettivo è presente e in grado di provocare la malattia collegata in tutti i Paesi del mondo. Quanto al Coronavirus, siamo ancora invece a livello di un’epidemia. Cioè di fronte a un numero di casi di malattia che, vista la diffusione così rapida e circoscritta nello spazio, è sicuramente superiore alla norma. Ma non ancora ubiquitaria. Il CoVid-19 sta infatti circolando in Cina, Corea del Sud, Italia, Giappone, Singapore, Hong Kong, Vietnam, Malesia, Australia, Filippine, Thailandia, Iran, Arabia Saudita, Kuwait, Cambogia, Sri Lanka, Bahrain, Libano, Russia, Spagna, Francia, Belgio, Germania, Gran Bretagna, Svezia e Finlandia. Al momento, vista anche l'elevata contagiosità, nessuno può escludere una diffusione oltre i confini di questi Paesi. Ma tutti gli Stati stanno facendo il possibile per contenere i contagi ed evitare di conseguenza l’evoluzione epidemiologia: da epidemia a pandemia.

Mortalità (per adesso) differente

Al di là della diffusione, anche la mortalità delle due infezioni è differente. La «spagnola», alla fine, uccise una quota compresa tra il 10 e il 20 per cento degli infetti. Il dato corrispondente relativo al Coronavirus non è definitivo. Ma dai primi studi condotti in Cina sembra comunque non essere superiore al 3 per cento nelle persone sane (il dato è al momento inferiore in tutti gli altri Paesi colpiti) e più alta (fino al 6 per cento) in chi ha già condizioni di salute precarie. Da qui l’importanza di stringere le maglie attorno all’infezione. «Se non ci fossero degli interventi adeguati, la mortalità generale potrebbe aumentare, anche molto», continua a ripetere Gianni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità. Con un'azione di forte contenimento sin dall’inizio, la pandemia può invece essere evitata. In Cina, la situazione è sfuggita di mano perché si è intervenuti un mese e mezzo dopo la comparsa della malattia, quando la situazione era già fuori controllo. Laddove si sono manifestati focolai secondari, come in Italia, sono state invece messe in atto le misure che hanno permesso di tenere sotto controllo dei focolai abbastanza importanti.

Diverse le opportunità di assistenza sanitaria

Altra differenza di non poco conto riguarda l’età delle persone colpite. La «spagnola» fece molte vittime soprattutto tra i giovani adulti. Nel 1920, il 92 per cento dei decessi si verificava in soggetti di età inferiore ai 65 anni. Un dato molto diverso da quello attuale, considerando per esempio le morti registrate in Italia. Le vittime del Coronavirus nel nostro Paese, al momento, sono tutte over 70 a eccezione di due, 68 e 62 anni, che partivano però da condizioni di salute già piuttosto compromesse. Il «target» appare dunque differente, anche se occorre tenere presente che un secolo più tardi la prospettiva di vita è di gran lunga superiore (i 65enni del 1920 erano gli 80enni di oggi) e non erano disponibili i reparti di terapia intensiva per assistere i pazienti in condizioni più gravi.

«Il Coronavirus? Può essere l’influenza spagnola del nostro millennio». Al di là della famiglia di appartenenza dei virus, sono in molti, negli ultimi giorni, a essersi sbilanciati paragonando l’epidemia attualmente in corso anche in Italia con quella che, tra il 1918 e il 1920, provocò oltre 100 milioni di decessi in tutto il mondo (quasi 400mila soltanto in Italia). In realtà, sebbene l’infezione che ha sorpreso il Pianeta all’inizio del 2020 sia pienamente in corso, ci sono diversi elementi che lasciano pensare a uno sviluppo diverso. E meno grave, oggi, di quanto non fu invece quella di un secolo fa, che arrivò a infettare oltre mezzo miliardo di persone.

CoVid-19: non è ancora una pandemia

Nel momento in cui scriviamo, CoVid-19 non ha ancora provocato una pandemia. Ovvero: il virus non sta ancora circolando in tutti i Paesi del mondo e c’è da augurarsi che ciò non accada. La prima differenza - sostanziale - è tutta linguistica. Per gli epidemiologi si parla di pandemia quando un agente infettivo è presente e in grado di provocare la malattia collegata in tutti i Paesi del mondo. Quanto al Coronavirus, siamo ancora invece a livello di un’epidemia. Cioè di fronte a un numero di casi di malattia che, vista la diffusione così rapida e circoscritta nello spazio, è sicuramente superiore alla norma. Ma non ancora ubiquitaria. Il CoVid-19 sta infatti circolando in Cina, Corea del Sud, Italia, Giappone, Singapore, Hong Kong, Vietnam, Malesia, Australia, Filippine, Thailandia, Iran, Arabia Saudita, Kuwait, Cambogia, Sri Lanka, Bahrain, Libano, Russia, Spagna, Francia, Belgio, Germania, Gran Bretagna, Svezia e Finlandia. Al momento, vista anche l'elevata contagiosità, nessuno può escludere una diffusione oltre i confini di questi Paesi. Ma tutti gli Stati stanno facendo il possibile per contenere i contagi ed evitare di conseguenza l’evoluzione epidemiologia: da epidemia a pandemia.

Mortalità (per adesso) differente

Al di là della diffusione, anche la mortalità delle due infezioni è differente. La «spagnola», alla fine, uccise una quota compresa tra il 10 e il 20 per cento degli infetti. Il dato corrispondente relativo al Coronavirus non è definitivo. Ma dai primi studi condotti in Cina sembra comunque non essere superiore al 3 per cento nelle persone sane (il dato è al momento inferiore in tutti gli altri Paesi colpiti) e più alta (fino al 6 per cento) in chi ha già condizioni di salute precarie. Da qui l’importanza di stringere le maglie attorno all’infezione. «Se non ci fossero degli interventi adeguati, la mortalità generale potrebbe aumentare, anche molto», continua a ripetere Gianni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità. Con un'azione di forte contenimento sin dall’inizio, la pandemia può invece essere evitata. In Cina, la situazione è sfuggita di mano perché si è intervenuti un mese e mezzo dopo la comparsa della malattia, quando la situazione era già fuori controllo. Laddove si sono manifestati focolai secondari, come in Italia, sono state invece messe in atto le misure che hanno permesso di tenere sotto controllo dei focolai abbastanza importanti.

Diverse le opportunità di assistenza sanitaria

Altra differenza di non poco conto riguarda l’età delle persone colpite. La «spagnola» fece molte vittime soprattutto tra i giovani adulti. Nel 1920, il 92 per cento dei decessi si verificava in soggetti di età inferiore ai 65 anni. Un dato molto diverso da quello attuale, considerando per esempio le morti registrate in Italia. Le vittime del Coronavirus nel nostro Paese, al momento, sono tutte over 70 a eccezione di due, 68 e 62 anni, che partivano però da condizioni di salute già piuttosto compromesse. Il «target» appare dunque differente, anche se occorre tenere presente che un secolo più tardi la prospettiva di vita è di gran lunga superiore (i 65enni del 1920 erano gli 80enni di oggi) e non erano disponibili i reparti di terapia intensiva per assistere i pazienti in condizioni più gravi.