A200 anni dalla prima descrizione della malattia di Parkinson ad opera del medico e geologo londinese James Parkinson, avvenuta nel 1817, gli studi stanno mettendo i ricercatori di fronte a un enigma a più facce, che riguarda l’origine del morbo, la sua progressione e anche le possibili nuove vie di cura.

Quella che si credeva essere una malattia neurodegenerativa, «confinata» nel cervello, si sta rivelando sempre più come un disturbo che coinvolge l’intero organismo: trarrebbe origine dall’intestino e sfrutterebbe il sistema immunitario per progredire. A sostenere questa ipotesi sono ormai numerosi studi, l’ultimo dei quali - pubblicato su «JCI Insight» – ha evidenziato che alcune cellule endocrine presenti nell’intestino contengono la proteina-chiave della malattia di Parkinson, l’alfa-sinucleina: la sua mutazione formerebbe proprio quegli aggregati che si accumulano nelle cellule nervose dopaminergiche del cervello, causandone la morte.

Ma in che modo la proteina mutata riuscirebbe a migrare dall’intestino al cervello? Una via preferenziale sarebbe il nervo vago, che collega l’addome al tronco encefalico. Una prova arriva da uno studio svedese pubblicato su «Neurology»: ha dimostrato che i pazienti che per problemi di ulcera si sottopongono a vagotomia - la resezione del nervo vago - hanno il 40% di rischio in meno di andare incontro al Parkinson. Ma l’alfa-sinucleina alterata potrebbe sfruttare anche altre vie di trasmissione, facendo leva sulla sua straordinaria capacità di propagazione nel sistema nervoso, che molti ricercatori associano ai prioni del morbo della mucca pazza, ossia a quelle proteine «sbagliate» capaci di infettare in breve tempo tutte le altre proteine.

«C’è un filo rosso che lega l’intestino al cervello nel Parkinson e si tratta di uno dei filoni di ricerca più interessanti e promettenti della neurologia», spiega Leandro Provinciali, professore all’Università Politecnica delle Marche e presidente della Società Italiana di Neurologia, tra i precursori di questo campo di studio. In una ricerca pubblicata nel 2011 su «Movement Disorders», era stato tra i primi al mondo a focalizzare l’attenzione sul microbiota intestinale nei pazienti malati di Parkinson, assieme al suo team che coinvolse anche alcuni gastroenterologi. Da quello studio risultò evidente che, oltre ai disturbi di stipsi, i pazienti con Parkinson presentavano una flora intestinale diversa dai soggetti sani. «È stata un’intuizione interessante, a cui hanno fatto seguito numerose altre ricerche», ricorda Provinciali. E anche grazie a questi studi la stipsi persistente rappresenta oggi un importante campanello di allarme della malattia e anche una possibile strada di cura, dato che si è cominciato a indagare il ruolo dei prebiotici e di una dieta ricca di fibre nel prevenire o arrestare l’avanzata del morbo.

Ad ampliare ulteriormente lo spettro delle osservazioni sul Parkinson è il ruolo del sistema immunitario nell’innescare la malattia. Le difese dell’organismo sono, di solito, incapaci di attaccare le cellule del sistema nervoso e, tuttavia, nel Parkinson si dimostrano particolarmente attive contro i neuroni portatori della forma alterata dell’alfa-sinucleina. A evidenziare questo meccanismo d’azione è stato uno studio statunitense apparso su «Nature» e che potrebbe aprire nuove importanti prospettive nella lotta al morbo, per esempio attraverso il ricorso a farmaci immunoterapici per mettere a freno i linfociti T. Secondo lo studio, infatti, l’alfa-sinucleina che si accumula nei neuroni è in grado di trarre in inganno i linfociti T dell’organismo, scatenando una risposta immunitaria anomala, rivolta proprio contro i neuroni dopaminergici del cervello. Non è ancora chiaro, tuttavia, se questa risposta rappresenti la causa iniziale del Parkinson o il meccanismo che la malattia sfrutta per progredire nel tempo.

A fronte di un puzzle già abbastanza complesso, stupiscono anche alcuni elementi inspiegabili della malattia, a partire dal fumo di sigaretta che, altamente nocivo in qualsiasi altro caso, si presenta come un fattore protettivo per il Parkinson. Probabilmente per via del suo riconosciuto effetto sulla motilità intestinale o per altre cause alle quali ancora non si sa dare una risposta.


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