Una petizione online per accendere i riflettori sulla chiusura di un reparto ospedaliero. Con una curiosità: che a lanciarla sulla piattaforma Change non è stato un gruppo di pazienti arrabbiati. Bensì un medico, il primario della struttura in questione, l’unità di terapia del dolore del Cardarelli di Napoli: Vincenzo Montrone. Le cure palliative rischiano di non essere più garantite ai napoletani e lui, prossimo alla pensione, s’è lanciato in questa crociata: «È una scelta di miope, anni di sacrifici che vengono vanificati».
ADDIO ALLA PRIMA UNITÀ DI TERAPIA DEL DOLORE DEL SUD ITALIA?
La scelta di affidarsi alla rete, piuttosto originale da parte di un primario, è in realtà il frutto dell’evoluzione dei tempi. Non essendo stato ascoltato nel corso degli incontri con le istituzioni locali, ma soprattutto dopo che il 21 giugno la dirigenza del suo ospedale ha inviato alla Regione il piano di riordino in cui si prevede la cancellazione dell’unità di terapia del dolore, Montrone deve aver pensato che l’ultima spiaggia fosse rappresentata dal tam-tam mediatico. Le firme raccolte in tre settimane, in realtà, non sono poi così tante (6500), se si considera l’andamento di questo tipo di iniziative.
Ma l’anestesista, che nel frattempo ha incassato il sostegno di Federconsumatori , dell’Ordine dei Medici di Napoli e del sindacato nazionale Anaao Assomed non aveva alternative, per provare a salvare «la prima unità di terapia del dolore istituita al centro-sud». Grazie all’attivazione dei posti letto - assenti nelle altre strutture ospedaliere che contano un’unità di terapia del dolore: Monaldi, Cotugno e Santobono Pausilipon - «sono stati raggiunti obiettivi che vanno al di là della pur fondamentale assistenza» che invece la Regione Campania punta a garantire nel capoluogo - con l’approvazione del provvedimento, rischiano di essere più dotate Benevento e Avellino - «abolendo i posti letto per i pazienti affetti da patologia algica tumorale e cancellare l’unità operativa del dipartimento oncoematologico per sostituirla con un ambulatorio di terapia del dolore nel dipartimento di anestesia».
IL RISCHIO DI INTASARE LE RIANIMAZIONI SAREBBE DIETRO L’ANGOLO
Quello che per la burocrazia ospedaliera è un semplice cambio di collocazione (da reparto ad ambulatorio) rappresenta un sensibile passo indietro per l’utenza. Spiega ancora Montrone, che punta a far recapitare la petizione al Governatore De Luca e al ministro della Salute Lorenzin: «I malati affetti da patologia tumorale, che arrivano in fase terminale e ricoverati nelle varie divisioni, saranno inviati, come accadeva in passato, nel dipartimento di rianimazione, terapia intensiva e medicina di urgenza. In questo modo si determineranno ricoveri impropri, ma soprattutto queste persone andranno incontro a una morte priva di umanità». Ma il contraccolpo non sarebbe soltanto per questi pazienti. Tutti gli altri che avranno bisogno di un posto letto in rianimazione rischiano infatti di trovarli occupati e di dover affrontare quelli che lo specialista bolla come «vergognosi trasporti in elicottero per mancanza di posti letto». Con il rischio di mettere in gioco un’altra vita che si sommerebbe alla certezza di non poter garantire una fine dignitosa ai malati oncologici terminali. Montrone ricorda i numerosi obiettivi raggiunti dalla struttura finora guidata. Il risparmio è stato valutato in circa 4,8 milioni l’anno. Se ne spendevano 6,5 fino al 2009 per accompagnare verso la fine i pazienti terminali affetti da tumore. Cifra che nel 2012 risultava scesa a 1,7 milioni. Senza trascurare il ruolo della «dimissione protetta», che ha garantito ai pazienti oncologici che ne facevano richiesta di essere assistiti tra le loro mura di casa.
IN ITALIA LA TERAPIA DEL DOLORE NON E’ PER TUTTI
La petizione lanciata da Montrone riporta l’attenzione sulle ultime fasi di vita dei pazienti oncologici, a cui spesso non viene assicurata la necessaria assistenza. A distanza di sei anni dall’approvazione della legge sulla terapia del dolore - la 38/2010 - ci sono troppe disparità sul territorio italiano nell’accesso ai farmaci e alle cure. La regionalizzazione sanitaria non riduce le diseguaglianze: anzi. E i cittadini non sono ancora informati sui loro diritti, in tema di cura. Spiega Vittorio Guardamagna, direttore dell’unità di terapia del dolore e cure palliative dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano.
«Nei pazienti con tumore una condizione di sofferenza protratta e non controllata costringe a volte l’oncologo a interrompere la chemioterapia o il radioterapista a rinviare la seduta. È fondamentale lenire il dolore, per motivi non soltanto etici, ma anche clinici. Il problema è che, ancora troppo spesso, si ricorre a terapie poco appropriate: nel caso dei pazienti oncologici, accade una volta su due».
L’Italia, come ricordato da Guido Fanelli, direttore dell’unità operativa complessa di anestesia e rianimazione e del centro di terapia del dolore dell’azienda ospedaliero-universitaria di Parma, nel corso dell’ultimo congresso IMPACT Proactive, «è l’ultimo tra i cinque Paesi top europei (Inghilterra, Spagna, Francia e Germania, ndr) per consumo di farmaci per il trattamento del dolore benigno e l’ultimo in Europa per valore complessivo di oppioidi. L’utilizzo dei farmaci oppiacei deve crescere in maniera appropriata e regolamentata». La questione non riguarda soltanto i malati oncologici terminali, ma anche tutti coloro che avvertono dolori dopo gli interventi chirurgici. Solo un paziente su dieci verrebbe trattato in maniera adeguata dopo una procedura chirurgica, con notevoli differenze su base regionale. A sei anni dall’approvazione della legge, le terapie del dolore su larga scala sono ancora un’utopia.
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