Di rimedi risolutivi, al momento, non ve ne sono. La malattia di Parkinson, di cui sabato 24 novembre, si celebra la giornata mondiale, colpisce poco meno di trecentomila italiani, la metà dei quali è ancora in una fascia d’età lavorativa.

L’età più frequente di insorgenza della seconda condizione neurodegenerativa più diffusa, dopo l’Alzheimer, è stimata tra i 59 e i 62 anni e non esistono forme di prevenzione primaria che riducano il rischio di insorgenza di una condizione con cui è possibile convivere, ma che continua a fare paura.

Alle origini del Parkinson

I quattro sintomi cardinali che caratterizzano il morbo di Parkinson sono rigidità, bradicinesia (ossia difficoltà nell’iniziare un movimento), instabilità posturale e tremore. A livello cellulare, la malattia si caratterizza per la perdita progressiva di neuroni dopaminergici, ossia cellule nervose che producono dopamina, l’accumulo di inclusioni nel citoplasma (i corpi di Lewy) e per la presenza di mitocondri strutturalmente anomali, che non funzionano correttamente. I mitocondri sono le centrali energetiche della cellula, perché producono l’Atp, la forma di energia chimica della cellula indispensabile per tutte le sue funzioni. Per la natura del loro funzionamento, i mitocondri possono generare specie reattive dell’ossigeno, altamente tossiche.

Esistono quindi dei meccanismi di «controllo di qualità» adibiti all’eliminazione dei mitocondri disfunzionali per evitare che questi siano sorgenti di tossicità cellulare. La mitofagia, ossia l’eliminazione selettiva di mitocondri danneggiati, è uno di questi meccanismi, altamente studiato perché il suo malfunzionamento è stato direttamente correlato alla insorgenza del morbo di Parkinson.

La ricerca (continua) verso una diagnosi precoce

Negli ultimi due anni - sulla falsa riga di quanto accade rispetto all’Alzheimer - si è molto discusso dei nuovi possibili biomarker per la diagnosi precoce della malattia di Parkinson. Un anno fa è stato pubblicato un lavoro su «Acta Neuropathologica Communications» in cui i ricercatori dell’University College di Londra hanno effettuato sul ratto un test della retina capace di identificare i segni di neurodegenerazione legati alla malattia di Parkinson, prima che questa si manifesti clinicamente. I risultati sono stati definiti incoraggianti dagli stessi autori, pur alle prese con l’esito di una ricerca preclinica.

Un altro test non invasivo proposto per la diagnosi precoce di malattia, pubblicato da ricercatori italiani su «Plos One», consiste nel dosare due forme di alfa sinucleina (monomerica e aggregata in oligomeri) nella saliva. Il rapporto è abitualmente in equilibrio, ma nei pazienti con malattia di Parkinson è stato riscontrato un aumento della forma aggregata. Altro spunto interessante: i livelli di proteina oscillavano a seconda della gravità dei sintomi motori osservati nei pazienti. La prudenza è d’obbligo, ma se si riuscirà a individuare le variazioni di alfa-sinucleina direttamente nella saliva, probabilmente un giorno si eviterà il prelievo del liquor cefalorachidiano attraverso la puntura lombare: una procedura tutt’altro che agevole per il paziente, oltre che non esente da rischi.

Il sostegno (necessario) alla famiglia

Ciò che invece è certo è che, tra il 2001 e il 2014, i decessi associati alla malattia di Parkinson in Gran Bretagna sono aumentati in modo sostanziale, come riferito poche settimane fa attraverso le colonne del «Journal of Parkinson’s Disease». Un dato - il totale di tredici anni sfiora le centomila unità - che può essere spiegato anche con l’aumento della longevità, che rende più probabile un decesso dovuto alla stessa malattia. Otto di questi casi su dieci si sono registrati in ospedali e case di cura: da qui la necessità di ripensare alle modalità con cui affrontare la malattia, considerando che la maggior parte dei pazienti ha il desiderio di trascorrere gli ultimi giorni di vita a casa propria.

Le proposte dei ricercatori inglesi contemplano l’istituzione di una rete di professionisti sanitari con competenze specifiche per la malattia, la stesura di un piano di assistenza personalizzato che coinvolga anche le famiglie e la creazione in ultima istanza di strutture. E sul ruolo del caregiver è incentrata la campagna lanciata lanciata dall’Accademia Limpe-Dismov e Fondazione Limpe per il Parkinson Onlus (in collaborazione con AbbVie) per puntare l’attenzione sull’importanza della gestione degli aspetti emotivi, relazionali e pratici dell’assistenza familiare alle persone affette dalla malattia. Nei centri di riferimento di sette città italiane (Torino, Pavia, Genova, Bologna, Roma, Napoli e Catania) i familiari che si prendono cura di un parente parkinsoniano sono stati inseriti in un percorso formativo guidato da un’equipe composta da neurologi, neuropsicologi, logopedisti, fisioterapisti e nutrizionisti.

Particolare attenzione è rivolta alle tematiche di maggiore impatto pratico nella vita quotidiana: conoscere la malattia, le attività motorie domiciliari, i disturbi della deglutizione e della fonazione, consigli alimentari e stili di vita e infine un momento di auto-aiuto di gruppo per gestire lo stress. «Anche chi si prende cura di queste persone ha bisogno di attenzione - dichiara Leonardo Lopiano, ordinario di neurologia all’Università di Torino e presidente dell’Accademia Limpe-Dismov -. Il sostegno ai caregiver deve contemplare misure adeguate a tamponare i rischi a cui sono esposti: lo stress, l’isolamento sociale, il burnout, le difficoltà di accesso all’informazione e la mancata presa in carico da parte delle istituzioni competenti».

Twitter @fabioditodaro

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