È una speranza in più che, nei casi migliori, può allungare la vita anche fino a cinque anni. Da Barcellona, dov’è si è tenuto il congresso della Società Europea di Urologia, giungono notizie incoraggianti per i pazienti che ricevono la diagnosi di un tumore della prostata metastatico o di una neoplasia che ha comunque elevate probabilità di diffondersi in tutto il corpo (fegato, ossa e polmoni le altre sedi più spesso colpite, in questo caso). La novità sta soprattutto nell’ormai prossima disponibilità di una molecola che, somministrata in quei pazienti colpiti da una neoplasia prostatica aggressiva (ma non metastatica alla diagnosi), può ritardare la comparsa delle metastasi fino a due anni e preservare una qualità di vita accettabile. Un aspetto non da poco per quella quota di pazienti, compresa tra il 20 e il 30 per il cento di coloro che si ammalano di tumore della prostata, che dopo l’intervento chirurgico convive con il timore della ricomparsa della malattia in un altro organo.

Un farmaco per ritardare la comparsa delle metastasi

Si chiama apalutamide il farmaco che, oltre a rappresentare l’ultima evoluzione di un approccio sempre più individualizzato nei confronti della più frequente malattia oncologica maschile, rappresenta di fatto una forma di prevenzione secondaria nei confronti della probabile ricomparsa del tumore. Il paziente verrà operato o trattato con la radioterapia. Dopodiché, se la valutazione compiuta in sede di diagnosi lascerà presupporre un alto rischio di formazione di metastasi a distanza, il suo oncologo di riferimento avrà un’arma in più per fronteggiare questa evenienza.

Come dimostrato dallo studio «Spartan», pubblicato sul «New England Journal of Medicine» l’associazione di apalutamide alla terapia di deprivazione androgenica (lo standard fino a oggi, nel trattamento della malattia metastatica) riduce anche più del 70 per cento la mortalità e il rischio di progressione metastatica. Un guadagno statistico che si traduce nell’aumento di oltre due anni del periodo libero da metastasi in pazienti ad alto rischio.

Apalutamide disponibile entro la fine dell’anno?

Il farmaco, assunto per via orale, previene il legame degli androgeni (considerati il «carburante» della malattia) al recettore e impedisce la sintesi proteica da parte del Dna tumorale. Apalutamide, la cui efficacia è già stata riconosciuta in Europa (dall’Agenzia Europea del Farmaco), sarà disponibile per i pazienti italiani con ogni probabilità entro la fine dell’anno (quando dovrebbe concludersi la negoziazione economica con l’Agenzia Italiana del Farmaco).

«Per i pazienti che hanno la certezza di andare prima o poi incontro a metastasi e quindi convivono con una spada di Damocle difficile da tollerare, vedere trascorrere due anni con una qualità di vita invariata e senza dolore è un aspetto importante», afferma Walter Artibani, segretario generale della Società Italiana di Urologia. Ma chi sono i pazienti a cui potrebbe essere destinata questa opportunità?

«Coloro i quali, già alla diagnosi, scoprono di avere una malattia con un punteggio di Gleason compreso tra 8 e 10 - prosegue Artibani -. Si tratta di una scala che ci permette di definire l’aggressività della malattia sulla base della valutazione compiuta durante le analisi microscopiche sull’aspetto del tessuto prostatico prelevato tramite la biopsia. Ma l’indicazione al trattamento potrebbe derivare anche da un rapido incremento dei valori dell’antigene prostatico specifico (Psa) o dalla comparsa di una sintomatologia evidente pur in assenza di significative variazioni del Psa». La valutazione, dunque, avverrà su misura del singolo paziente.

L’evoluzione delle terapie

La disponibilità imminente di apalutamide fa il paio con l’aggiunta di un altro farmaco al ventaglio dei possibili trattamenti: l’abiraterone, che invece viene somministrato ai pazienti che già al momento della diagnosi presentano una malattia metastatica. Fino a poco tempo fa in questi casi la speranza di vita era quasi mai superiore a tre anni. Oggi, con l’utilizzo di questo farmaco associato alla terapia ormonale di deprivazione degli androgeni, ci sono pazienti che sopravvivono anche un lustro. Numeri che possono apparire come fredde statistiche, ma che in realtà corrispondono a giorni e mesi di vita restituiti a un uomo e alla sua famiglia.

Una «rivoluzione», è il pensiero di Sergio Bracarda, direttore della struttura complessa di oncologia medica dell’azienda ospedaliera Santa Maria di Terni, secondo cui «l’innovazione in atto nei confronti del tumore della prostata è anche più significativa di quella avvenuta nei confronti del cancro della mammella. Grazie alle nuove conoscenze sulle caratteristiche dei tumori, alle possibilità diagnostiche e ai trattamenti innovativi oggi disponibili, stiamo assistendo a un incremento della speranza di vita che, nei pazienti già metastatici al momento della diagnosi, è passata in poco tempo da 36 mesi a quasi cinque anni».

Twitter @fabioditodaro